Michele Silenzi è dovuto crescere in fretta, non solo perché ha scoperto di avere dei poteri straordinari, ma anche perché ad appena 16 anni si trova ad affrontare un grave lutto. Non è più il bambino bersagliato dai bulli della scuola ma è un teenager alla ricerca della propria strada, ancora innamorato di Stella, ignara però di essere stata salvata da lui durante i fatti di qualche anno prima. Quando nella sua classe arriva Natasha, una ragazza misteriosa e che pare interessata a lui, Michele può finalmente ricucire i legami con il suo passato, mentre altri “speciali” in giro per il mondo vengono rapiti da qualcuno che sempre avere dei programmi per loro.
Quando nel 2014 Gabriele Salvatores parlò del suo progetto Il Ragazzo invisibile, lo presentò come il tentativo italiano di fare un cinecomics totalmente nostrano, accompagnando la pellicola con iniziative collaterali come un graphic novel, un concorso per cercare nuovi talenti musicali, un buon lancio promozionale, così come succede normalmente oltre oceano. Tentativo riuscito fino a un certo punto perché, oltre la buona volontà produttiva, era proprio la sceneggiatura a lasciare maggiormente perplessi. Tuttavia visti i buoni incassi e in linea con l’idea che un prodotto del genere debba, per sua natura generare dei sequel, trascorsi tre anni torna sul grande schermo Michele, ragazzo invisibile nato in un campo di prigionia per “speciali” in Russia, alle prese non più con l’infanzia ma con l’adolescenza. E in effetti questo cambio di età porta anche nel film a una maturità che lo rende più interessante e un po’ meno pedagogico rispetto al capitolo uno. Soprattutto dal punto di vista del look dei personaggi e delle scenografie c’è la volontà di spingersi più in là, anche se alle volte esagerando e cadendo involontariamente nel comico (vedi la parrucca platinata di Ksenija Aleksandrovna o la scena in cui tutti si agghindano alla Matrix prima del colpo finale).
Ciò che purtroppo manca ancora una volta è la capacità da parte degli sceneggiatori di trattare la materia “cinecomics” di cui è evidente, ne sanno poco o nulla. Perché se è lodevole come dice Salvatores cercare una strada italiana per raccontare un super eroe da fumetto, è pur vero che purtroppo per lui c’è chi l’ha fatto e molto bene recentemente con Lo chiamavano Jeeg Robot, oggi pietra di paragone imprescindibile per il cinema italiano. Certo, l’uno è un film per ragazzi e l’altro per adulti, ma ciò non toglie che la rielaborazione in chiave nostrana se da una parte c’è stata dall’altra ci si è illudersi, se pure con le più buone intenzioni, di averlo fatto.
A prescindere da questo però si deve riconoscere il merito e il coraggio al progetto di Salvatores che, se pure con i suoi limiti e le tante ingenuità (l’italiano usato al pari dell’inglese come lingua universale) rimane un buon prodotto d’intrattenimento specie per i non addetti ai lavori.
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