Era a un passo da me. Stese un braccio sfiorando con le dita un brandello di camicia.
– Vattene! – urlai.
Gli sparai un calcio sul torace, ma lui mi abbrancò la caviglia e la tirò a sé. Sentii il terreno scivolare sotto la schiena strappando altri pezzi di stoffa misti a pelle, mentre un ghigno deforme faceva capolino nell'inquadratura.
Il colosso alzò il pugno mostrando il coltellaccio, e nella grossa lama rettangolare vidi allungarsi il riflesso spettrale della finestra magica.
Avvinghiai le mani al terreno, le dita sbucciate e sanguinanti alla ricerca di un'arma. Afferrai una pietra massiccia intrufolatasi sotto il palmo, e con un colpo di spalla la abbattei sul coltello.
La lama saltò via. Atterrò metri lontano, troppo lontano perché il bestione potesse raccoglierla.
Nel pugno gli rimase solo il manico di legno.
– Pagherai anche questo! – tuonò scagliandomelo in faccia.
Schivai il colpo per un pelo. Sferrai al bufalo altri calci con la gamba libera, ma lui li evitava eseguendo scarti laterali.
Riuscì a bloccarmi il piede, si accovacciò sul mio addome e mi serrò il polso. Lo torse con una tale violenza da gettarmi in un abisso di dolore. Sentii l'osso scrocchiare come un pacchetto di patatine e la mia mano aprirsi ad artiglio.
La pietra con cui avevo spaccato il coltello del terminator cadde a terra con un tonfo sordo.
1. Una catena di fallimenti
Trentasei ore prima
Quello stronzo di Garibaldi mi lanciava uno sguardo insolito: non la tipica occhiataccia da statua che ti squadra dall'alto in basso, no; sembrava implorarmi di sradicarlo dal piedistallo e portarlo in macchina con me, lontano dal chiasso dell'ingorgo che incasinava la piazza.
– In bocca a ssoreta – sibilai fra i denti, mentre spegnevo la cicca e tiravo fuori il cellulare.
Solo adesso capisco quanto la scultura stesse soffrendo, e comunque non avrei potuto farci un tubo: le vetture addossate le une alle altre intasavano ogni buco del culo, in uno strombazzare insistente che rompeva i timpani e pure il cazzo. Pareva di essere nella pancia di un enorme serpente di metallo aggrovigliato su se stesso e intento a urlare per il peso di barche e bagagli appollaiati sul dorso, un puzzle di tettucci verdi, bianchi e rossi che ai miei occhi seccati dal caldo parevano basilico, mozzarella e pomodoro, e con i quali il mio catorcio blu c’entrava quanto un puffo con una Margherita.
Napoli era una sauna a cielo aperto. Il sole di luglio rovesciava secchi di sudore addosso alla gente, spingendola a fuggire dalla città.
Io invece ero incatenato a quella merda di posto, come Garibaldi, gli anziani e i pezzenti. Tenevo i finestrini chiusi e il condizionatore a palla, però fumavo di rabbia mentre per l'ennesima volta scorrevo col pollice l’email sullo smartphone: quella che avevo ricevuto mesi prima e che da allora rileggevo in ogni momento di pausa.
“Oggetto: Selezione per nostra filiale di Napoli
Gentile Signor Fiorillo,
sono spiacente di comunicarLe che il colloquio da Lei sostenuto presso i nostri uffici in data 29 aprile u. s. ha avuto esito negativo.
Nel ringraziarLa dell'interesse dimostrato nei confronti della nostra Società, Le auguriamo migliore fortuna altrove.
Cordiali saluti.
Angelo Luce
Human Resources Department
Pandora Software Solutions
Via G. Porzio, 4
Centro Direzionale Napoli – Isola D1
80143 – Napoli”
“Migliore fortuna altrove”. Grazie, ma dove? Se prima della crisi le probabilità di rimediare uno stipendio decente si contavano sulle dita di una mano, adesso erano crollate a zero.
Le aziende a cui avevo spedito il curriculum non mi avevano mai calcolato.
Già. A nessuno interessava un ventitreenne con la maturità presa per opera e virtù dello Spirito Santo.
Tranne che a quelli della Pandora. O almeno così era sembrato.
Mi avevano contattato dopo essersi imbattuti nel mio profilo su LinkedIn: una bio essenziale, l'elenco dei lavori svolti e la mia faccia da procione zombie, con la barba di tre giorni, due occhiaie nere come le notti passate a sbattere la testa sul PC e un paio di lenti modello Clark Kent abbarbicate su un naso troppo schiacciato.
Una roba pietosa, però a sentire loro ero il candidato ideale per un importante progetto.
Fottutissimi stronzi.
Urla sguaiate mi strapparono dai ricordi. Frenai di colpo e lo schienale mi spinse in avanti.
– Addò tien'a capa, guagliò! – raspò una voce oltre il parabrezza.
Il traffico si era sbrogliato e soprappensiero avevo quasi investito un vecchio, pallido e raggrinzito come una camicia stropicciata sotto i piedi.
– Figlio di una cagna – gli lessi sulle labbra mentre si levava dalle palle camminando a passettini.
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID