- Oltre il Grande Mare! – aveva suggerito un vecchio e, forse, saggio eremita senza nome. L’Errante aveva così preso la via dell’oceano, e malgrado venti contrari e dispettose correnti, era giunto, naufrago e sfinito, all’altra costa.

- Oltre le Paludi Antiche! – erano state le parole dei pescatori.

- Oltre i Sette Villaggi Dorati!

- Oltre Axhia.

- Oltre…

Oltre. E così avanti, la ricerca era continuata, indefessa ma apparentemente vana. Senza vere soste. Un viaggio umanamente impossibile.

Adesso, l’Errante sente approssimarsi il momento del crollo fatale.

Stanco. Dannatamente, irrimediabilmente, stanco. Le palpebre si fanno di piombo. La vista si crepa, si oscura, si arrende.

L’uomo ha un sussulto. Un tuono improvviso è giunto a scuoterlo dal torpore prevaricante. Riapre gli occhi. Un cielo infernale, screziato di cremisi, percorso da ragnatele elettriche, comincia a riversare un diluvio fitto e opprimente. Il brullo altopiano non offre ripari.

L’Errante sibila un’imprecazione. Una bestemmia, lo sa, anche se ha maledetto un dio che non riesce a riconoscere, privo d’identità.  Una divinità che sa però estranea a quel mondo assurdo tanto quanto lui. Un'ombra ultraterrena, legata al suo primo esistere.

Di colpo, per un singolo istante, una saetta illumina a giorno la densa tenebra dell’orizzonte. Il muro d’acqua è costretto a rivelare i torbidi ma non molto lontani contorni di una costruzione. E’ l’apparizione di un attimo: impossibile comprendere la natura dell’edificio. Non di meno, sufficiente a supporre una distanza possibile.

Poi, mentre il caos oscuro del nubifragio conquista di nuovo l’aere sconvolto, la terra vibra in modo percettibile, con l’irruenza di un piccolo sisma. Il tuono si compiace della propria potenza. Lassù, tra danze di subitanei chiaroscuri, cupe nubi  si contorcono l’una alle altre, in un’orgia di elementi infuriati.

Mosso più dall’istinto che dalla ragione, l’Errante risale in groppa al destriero reso inquieto dalla veemenza degli elementi, e lo indirizza verso il punto in cui è apparsa la struttura. Vi troverà riparo e ristoro.

Non si rende nemmeno conto che, per la prima volta dalla sua partenza, non avverte il peso della colpa assalirlo all’istintiva scelta di concedersi una vera sosta.

Il palazzo è insolito e stravagante, soprattutto se considerato il luogo isolato dove è stato eretto. Ancor più inusitato, se tenuto conto di ciò che da evidenti simbologie l’edificio si dichiara essere.

Alla base ampio, solido e ben piantato, sobrio nelle sue forme ma non nelle sue decorazioni, visti i bassorilievi osceni che ne fregiano la facciata e il portale di bronzo, il palazzo si presenta sfuggente in altezza. Svetta mutando progressivamente in un’indefinita architettura tutta guglie e gargoyle. Di certo, deve raggiungere un’altezza considerevole, considerato che, complice il temporale, non se ne distingue la cima della torre più elevata.

Tutto attorno alla costruzione, la piana è permeata da un’aura d’incantesimo, una malia pregnante che attira ipnotica l’Errante, incapace di vincere il senso di disagio che nel contempo gli pizzica la spina dorsale.

C’è qualcosa di maestoso, di sacro, in quel palazzo. Pare un tempio. E ciò è paradossale, visto che non possono lasciare dubbi i riflessi scarlatti che filtrano dalle bifore delle finestre e dalle numerose piccole feritoie, le immagini lubriche scolpite e le forme accattivanti delle statue, nonché il grande marchio infamante che orgoglioso si palesa emblema di quel maniero, dominando l’arco sopra il portale.

Questo mondo è davvero impossibile. Un assurdo universo.

L’Errante, per la prima volta dopo tanto tempo, si concede un mezzo sorriso: riposerà in un postribolo.

Ora sta di fronte al maestoso portone a doppia anta, con la mano destra allungata verso il pesante batacchio. Esita, si sofferma a studiare decorazioni ed effigi, ad esplorare ancora le figure in rilievo nel bronzo e nell’oro battuto. Lo sguardo sale fino al simbolo che, nelle ultime nazioni che ha percorso, per antica consuetudine – per legge talvolta – marchia i lupanari come emblema distintivo dell’arte meretricia. Si tratta della Phyaxas-hlen, un incredibile fiore d’un nero intenso, appena marezzato di sfumature azzurre, che la notte si schiude in un caleidoscopio di colori sgargianti, e dal cui estratto si ricava un potentissimo afrodisiaco venduto a peso d’oro in tutte le contee.

Sotto la phyaxas di pietra, vi è scolpita una sorta di cartiglio che riporta, cesellata con cura artistica, la seguente dicitura:

Stanco Viandante

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