In un’epoca precedente a quella degli eroi chiamati Odisseo, Enea, Achille, Ettore e Agamennone…
In un tempo anteriore a quello della sacerdotessa Cassandra e delle regine Ecuba, Leda e Clitennestra…
Quando alcuni Dèi non erano ancora sorti dal Mare delle Stelle e quando il mondo aveva tutt’altro aspetto, una verità storica prese forma di leggenda e divenne mito.
Oggi, ve la narrerò…
La bimba si agitava appena, ciangottando radiosa poche parole incomprensibili. La trovai un giorno di primavera inoltrata su di una spiaggia in riva al mar Egeo, cullata a intervalli regolari da candidi flutti in bonaccia e da bianchi cavalloni spumeggianti.
Quel dì la volta del cielo, di un intenso blu cobalto, assomigliava a un pregiato frammento di madreperla, mentre la sconfinata striscia sabbiosa della battigia ricordava l’oro appena fuso. Per tutto il mattino non un alito di vento aveva smosso le nubi a picco sul mare, e né un’onda né un gabbiano avevano turbato col loro vocio quella pace innaturale.
Anche la bimba sembrava serena. Mi avvicinai a lei, cauta, e improvvisamente la piccola mi fissò con intensità, sorridendo.
Un sorriso così innocente.
Era stesa tra piccole conchiglie lucenti, e subito mi chiesi chi mai avesse potuto abbandonarla in quel luogo così solitario, dimostrando tanta pochezza d’animo. Ma a quella domanda non trovai risposta.
«Ciao, piccina» le dissi allora con voce rotta da un’emozione incontenibile. «Sai dirmi chi sei? No?»
Sorrisi a mia volta pensando ai figli che non avevo avuto. E la bambina per contro agitò le mani grassocce e paffute verso il mio viso segnato dal tempo. In un certo qual senso pareva avermi compresa, e sembrava pregarmi perché non l’abbandonassi al suo destino.
«No, piccina. No no, non temere. Non ti lascerò qui» mormorai alla fine, prendendola in braccio. «Ti porterò con me, ma prima hai bisogno di un nome.»
Come se avesse compreso il senso profondo di quelle parole, la bimba smise di agitarsi tra le mie braccia, facendosi improvvisamente attenta, quasi, direi oggi, pensierosa.
Osservai il mare.
La quieta distesa d’acqua sembrava stranamente immota, sospesa, quasi come se trattenesse il fiato nell'attesa di qualcosa, qualcosa di cui essa sola era a conoscenza.
«Sorta dalla spuma... del mare» sussurrai a quel punto, fissando la piccola. «Sai piccina, nel vecchio idioma delle isole esiste un nome per indicare tutte queste parole… Afrodite.» Esitai. «Ti piace?»
Per un lungo istante la bimba – Afrodite, come l’avevo ribattezzata – non si scompose, assorta com’era in qualche complicato pensiero.
Infine, però, quasi con sollievo incurvò le piccole labbra color del corallo in un’espressione radiosa, divina.
E a quel gesto ogni cosa lì attorno a noi parve finalmente riprendere vita, come se lo sguardo di una Dea vi si fosse appena posato sopra.
4 commenti
Aggiungi un commentoSiccome la mitologia greca mi piace molto (colpa del nome che porto probabilmente) non ho potuto non leggere questo racconto. Ebbene…
non mi è piaciuto.
In una giornata bellissima un signore trova una bambina bellissima e la chiama Afrodite. Embè?
Fosse stato il prologo di un romanzo (purchè non l’ennesima reintepretazione dell’Iliade partendo dal Pomo della Discordia per favore) avrebbe avuto un suo perché. Così come racconto a sé stante mi risulta un po’ insipido.
Tornando alla giornata bellissima; sono molto sensibile alle metafore visive, qui usate come introduzione.
Non sono esperta dei colori della madreperla, la tonalità che mi viene subito in mente è quella di un grigio-rosato cangiante, non certo il blu cobalto, che non è una sfumatura inventata dai poeti ma un colore ben preciso.
Non sono esperta nemmeno di onde, ma la combinazione bonaccia-cavalloni mi suonava strana, così mi sono un po’ documentata (chi dice che dovrebbero farlo anche gli scrittori?!?). I cavalloni sono onde piuttosto rilevanti generate da un vento un po’ forte, la bonaccia quando invece il vento non c’è. Entrambe le cose nello stesso momento mi sembrano un po’ difficili
Poco dopo però c’è scritto che per tutta la mattina non c’era stato un alito di vento, né onde. Eh?
Mi rendo conto che questo spaccare il capello in quattro risulti poco “socialmente” accettabile.
Se queste bizzarre metafore fossero state inserite in un racconto, o in un romanzo, più lungo probabilmente non mi sarei soffermata più di tanto, avrei arricciato il naso e sarei andata avanti nella lettura, posto che ne fosse valsa la pena; ma in questo caso si tratta di un’introduzione che occupa quasi un quarto del racconto, importante per definire l’ambiente in cui si svolge la vicenda, inevitabilmente mi sono saltate subito all’occhio.
Potrebbe essere che la "bambina" in realtà non sia una bambina, ma la rappresentazione della bellezza primordiale della Natura?
Non so se questa interpretazione sia corretta, però non me la sento di escludere.
Non credo.
Il contesto del racconto viene chiarito fin dall'inizio con i riferimenti alla mitologia Greca e all'Iliade e la bambina è decisamente Afrodite, dea dell'amore e della bellezza.
La dea greca della natura è Rea.
Ok, ho usato un tono da maestrina, è che sono sensibile all'argomento
Leggo questo racconto con colpevole ritardo, mi è parsa una cosetta simpatica e carina, anche se ovviamente non c'è la maestà o il tono epico che si attribuisce di solito alla nascita di una divinità...
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