Prologo

I dadi d’osso erano stati lanciati. Le dita artritiche della cieca li sondavano uno ad uno.

“Come hai detto di chiamarti, figliolo?”

“Gelco.”

“Come? Abbi pazienza, le mie orecchie sono così stanche.”

“Gelco.”

“Dunque Gelco, che cosa vuoi che veda?”

“Non saprei... Il mio futuro.”

“Ah, il tuo futuro”, sogghignò Macba. “Stasera dormirai qui in locanda. Un sonno agitato, direi...”

“Questo lo potevo indovinare anch’io. Non intendevo questo.”

“Comee?”

“Non intendevo il futuro di stasera.”

“Domani mattina ti sveglierai con la vescica piena.”

“Mi stai prendendo per i fondelli?”

“Nient’affatto giovanotto. Sto vedendo il tuo futuro. Vedo una latrina.”

“Mi stai prendendo per i fondelli.”

“Hai torto.”

“Ho torto? Dici che ho torto... E allora... Se ora... E se ora...”

“E se ora cosa?”

“E se ora mi mettessi a fare l’attaccabrighe? Tanto non mi potrebbe succedere niente, visto che comunque dormirò qui sano e salvo.”

“Un sonno agitato”, rispose la vecchia. “Ma non hai tutti i torti.”

“Dici sul serio?”

“Senti caro figliolo, sono cieca e decrepita. Mi restano tre denti in bocca. E sono anche piuttosto sorda.”

Il giovane si agitò sulla sedia. Poi si girò bruscamente verso Benjam.

“E tu che vuoi? È da un pezzo che te ne stai qui a origliare. Vai a lavorare, ficcanaso!”

Colto in flagrante, l’oste si allontanò in tutta fretta. Chi l’avrebbe detto che quel giovanotto fosse così insolente. Sarà per colpa della vecchia, si disse Benjam. In fondo lo stava prendendo per i fondelli.

Giunto al bancone, si versò del vino. Non aveva ancora finito di riempire il bicchiere che già una mano si protese ad afferrarlo. L’oste scrutò seccato il volto del cognato. Poi prese un secondo bicchiere e si servì da bere. “Fattelo durare Ulvo, perché questo è l’ultimo”, disse a denti stretti. “Ma non ti passa mai per quella testaccia bacata che così ti rovini?”

“Dai, non mi scocciare”, biascicò l’altro. “Adesso mi devo preoccupare per un bicchierino di vino? E di questi tempi poi... Piuttosto, riempimelo per bene.” Ulvo indicò stizzito il bicchiere mezzo vuoto. La fievole luce delle candele si azzuffava con le ombre scure sul suo volto rugoso; lo sguardo languido e le palpebre cascanti tradivano lo stato di ebbrezza. L’oste lo fissò con una smorfia di disapprovazione.

“Un ultimo dito, poi basta. Sei ubriaco, dammi retta. Domattina, quando ti leverai dal letto avrai un gran mal di testa, le budella rovesciate e lo stomaco sottosopra. Ecco cosa ci avrai guadagnato!”

“Se continui, me lo farai venire tu il mal di testa! E poi col temporalaccio che c’è stasera, domani me ne starò di sicuro a letto.” Ulvo trangugiò d’un fiato il suo ultimo bicchierino.

Scuotendo la testa, Benjam si alzò dallo sgabello e si affacciò alla finestra. Nell’oscurità della sera, la pioggia cadeva fitta. Aveva ragione Ulvo, pensò l’oste, i campi sarebbero stati impraticabili l’indomani. L’umidità gli era penetrata nelle ossa e quell’acquazzone stava intensificando il suo mal di schiena. Come se non bastasse, al malessere fisico si aggiungevano le preoccupazioni che lo tormentavano già da diversi giorni.

Era solo da qualche mese che Benjam aveva lasciato Valbel per venire a costruire la sua locanda qui, sulla via per Giloc. Si era lasciato alle spalle il paese natio con l’idea di mettere su un’attività che gli garantisse una vecchiaia tranquilla e agiata. Grazie ai risparmi di una vita di commerci era riuscito a costruire proprio una bella taverna, interamente in legno e pietra e con alloggi al secondo piano. Gli affari, doveva riconoscerlo, andavano a gonfie vele. Negli ultimi giorni, però, l’oste aveva cominciato a pensare di aver fatto un passo azzardato. Quella storia dell’attacco al convoglio del grano lo aveva scombussolato, tanto più che la locanda si trovava in mezzo alle campagne, del tutto isolata.

Benjam era seriamente preoccupato al pensiero di una combriccola di briganti che scorrazzava nelle vicinanze e l’indifferenza di Ulvo lo infastidiva. D’altra parte quell’avvinazzato era il marito di sua sorella. L’oste aveva deciso di portarlo con sé, se non altro per assicurargli una sistemazione. D’accordo, gli voleva anche bene, ma alle volte quello scansafatiche gli dava sui nervi. Pungolato da queste considerazioni, tornò al bancone.

“Ma perché non la smetti di bere e non torni un po’ da tua moglie?” sbottò in faccia al cognato. “La lasci sempre sola. E di questi tempi poi.”

“La lascio sola sì. Quell’arpia... Be’, comunque lo faccio per venire a farti compagnia.” Abbarbicato sullo sgabello, Ulvo sollevò a malapena le palpebre. L’oste lo fissò con rabbia.

“Sarà già sotto le coperte a quest’ora”, aggiunse Ulvo. “Poi che ti credi, che si sente più al sicuro se sto con lei?”

“Certo che no. Ormai sei solo un ubriacone.”

“Ma coscia dici?”