La fotografia è in bianco e nero, un po’ sbiadita, ma il volto è ancora ben riconoscibile: un volto giovane e sorridente, illuminato dalla luce del sole, così diverso dal mio, come può esserlo quello di un vivo da quello di un morto. Eppure so con certezza di essere io la ragazza che sorride verso l’obiettivo; ricordo con estrema precisione il giorno, l’ora, il luogo e le circostanze in cui la fotografia fu scattata; riconosco come miei i lineamenti che riproduce; in poche parole, come diceva mio padre, mi assumo la piena responsabilità della mia faccia, ora come allora. Con uguale certezza sapevo che avrei ritrovato questa fotografia nelle pagine interne della rivista Percorsi letterari: non in prima pagina, non sono così famosa, ma nella sezione dedicata alle ricorrenze, alle commemorazioni e agli anniversari. Sapevo che sarebbe stata questa fotografia, e non un’altra, perché non ce ne sono altre: l’unica immagine a tutt’oggi esistente della mia persona è il ritratto scattatomi da mio padre nel giardino della nostra casa di Vienna, il 15 agosto di un anno che non voglio nominare, il giorno del mio diciottesimo compleanno. Infine sapevo che la fotografia sarebbe stata pubblicata nel numero di settembre, perché io stessa ho scritto l’articolo che l’accompagna, anche se naturalmente non l’ho firmato con il mio nome: una commemorazione della defunta scrittrice austriaca Hannah Richter. Hannah Richter sono io, e il 20 settembre 1998 ricorre il novantesimo anniversario della mia morte.
Mentre osservo ancora una volta la fotografia, e continuo a riflettere con narcisistico piacere sull’innumerevole quantità di cose che ora so, e che allora non sapevo, non posso fare a meno di chiedermi quale aspetto avrebbe, ora, la mia faccia illuminata dal sole, e se sia proprio la luce del sole a conferire a quel volto, che un tempo era il mio, lo splendore particolare di cui mio padre si sarebbe servito, non molto tempo dopo, per tradirmi e per vendermi. Ma forse non era il sole a farmi brillare gli occhi: forse la loro luminosità era soltanto una conseguenza della mia ignoranza, del mio non sapere che, mentre io avevo sempre pensato a mio padre come a un mio uguale, lui aveva sempre pensato a me come a una preziosa merce di scambio, di cui l’educazione, la cultura e la sensibilità che aveva voluto trasmettermi avrebbero accresciuto il valore. Non immaginava di avermi trasmesso anche la sua ambizione, la sua ostinazione, il suo egoismo. Non immaginava che avrei avuto il coraggio di andarmene. Mi chiedo che cosa abbia pensato dopo il mio primo libro. Mi chiedo che cosa penserebbe di me ora, se mi vedesse; mi domando se mi riconoscerebbe. Ma in realtà ciò che voglio sapere è fino a che punto sono cambiata, in quale misura l’immagine che lo specchio di fronte a me si ostina a riflettere sia ancora identificabile come la mia.
Ciò che in realtà voglio sapere è se David mi riconoscerebbe, lui che quando gli mostrai questa foto mi disse, mentendo, che avevo ancora l’aria di una diciottenne, e non si chiese mai, se non quando fu troppo tardi, per quale motivo gli permettessi di farmi visita solo dopo il tramonto. Forse desidero rivederlo, dopo tanti anni, solo per assicurarmi che mi trovi ancora bella e desiderabile. Forse desidero soltanto il piacere della sua compagnia. O forse, più semplicemente, ho paura di lui. Perché anche lui mi ha tradita, e nei momenti peggiori ho il sospetto che mi abbia anche venduta. Come mio padre, neanche lui riusciva ad accettare che io fossi diversa da ciò che si aspettava; come mio padre, non era in grado di tollerare un rifiuto. A differenza di mio padre però, il quale, dal giorno in cui lasciai la sua casa fino al giorno della sua morte, non mi rivolse mai più la parola, David mi ha giurato vendetta. Ha giurato che dedicherà la sua intera esistenza alla mia distruzione, che sarà la mia nemesi, o meglio l’ombra della mia seconda e definitiva morte. Quale prova d’amore più duratura di questa? Dovrei ritenermi soddisfatta.
Ma neppure il pensiero di David basta a rassicurarmi, perché ciò che devo temere non è il cambiamento, bensì l’immutabilità. Questo volto in cui, complice lo specchio, sono costretta a riconoscermi, e che mi appare sempre più simile a quello di un cadavere che a quello di un essere umano, non è a un primo sguardo in alcun modo distinguibile dal volto della ragazza che sorride nella fotografia. In realtà David non mentiva, o almeno non del tutto. Solo, lui si fermava all’apparenza delle cose, senza comprenderne la sostanza. Ciò che è cambiato in me, rispetto alla fotografia, è la sostanza; l’apparenza è rimasta immutata.
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