Fu così che irruppe urlando nella stanza, l’elegante cappotto spiegazzato, le scarpe nere lucide macchiate, i capelli castani spettinati, gli occhi scuri sbarrati, fissi su di me, come se non riuscisse a credere che fossi proprio io. Si fermò di colpo, mi voltò le spalle, si avvicinò al letto, afferrò il polso del ragazzo, stringendolo per qualche istante, poi, rassicurato, lo lasciò ricadere. Lo specchio di fronte a me, lurido, senza cornice, solcato da crepe che davano l’impressione che da un momento all’altro sarebbe andato in frantumi, rifletteva, moltiplicandole, le tre immagini del ragazzo, addormentato tra le molle rotte del materasso, di David, chino su di lui, e di me, in piedi dietro di loro, troppo orgogliosa per fuggire, troppo leale per approfittare di quel momento.

David si voltò. Gli tremava la voce, ma le sue parole mi arrivavano chiare, come sempre. Gli feci notare che un gentiluomo non dovrebbe mai rivolgere frasi offensive a una signora, ma questa volta fu lui a ridere. Questa volta fui io a urlare. Gli gridai che era un ipocrita, che non era amore ma lussuria ciò che l’aveva indotto a seguirmi, che era rimasto a guardare dalla finestra, senza fare niente per fermarmi. Levò una mano verso di me, come per schiaffeggiarmi, ma io ero più veloce e più forte di lui: lo afferrai per il bavero del cappotto, lo sollevai di peso e lo scagliai contro il muro scrostato a pochi passi da noi. Cadde a terra, giacque per un istante sul pavimento lercio, poi si rialzò lentamente, pulendosi gli abiti. Rimasi immobile, consapevole di sprecare un’altra occasione, incapace di agire in modo diverso. Nel silenzio improvviso, sotto la luce smorta dell’unica lampadina appesa al soffitto, il volto di David appariva pallido, smarrito, come se solo allora si fosse reso conto di dove fosse, di cosa stesse facendo, di chi avesse di fronte. Lo vidi controllare con la coda dell’occhio la posizione della porta d’ingresso, quasi stesse calcolando dentro di sé quanti secondi gli sarebbero occorsi per raggiungerla, chiedendosi, alla luce della sua ultima esperienza, se ne avrebbe mai avuta la possibilità.

Sentii un nodo allo stomaco. L’intera scena mi parve d’un tratto assurda, irreale, la grottesca parodia di un incontro galante di cui io stessa ero l’artefice, a cui ero incapace di porre fine. In preda alla nausea indietreggiai, appoggiandomi contro la parete alle mie spalle. David esitò per qualche attimo, ancora sogguardando la porta, poi mi venne incontro, camminando adagio, con cautela, come chi non è ancora sicuro di ciò che lo aspetta. Vidi il suo volto pallido avvicinarsi lentamente al mio, sentii la sua mano incerta sfiorarmi una guancia, con una timidezza che non gli conoscevo. Chiusi gli occhi. Lui mi sciolse i capelli, mi prese tra le braccia, mi baciò sulla bocca, a lungo, con tenerezza. Non cercai di fermarlo. Non cercò di fermarmi.

Fui io a fermarmi, un attimo prima che fosse troppo tardi. Non so cosa mi abbia spinto a farlo. Forse l’immagine di noi due insieme per sempre, incatenati in una complicità senza fine. Mi staccai da David, guardandolo negli occhi scuri, ai quali non avevo permesso di cedere al sonno. Lui vacillò e si aggrappò a me per non cadere. Mi strinse a sé, sussurrando il mio nome, e premette il collo contro la mia bocca. Mi giurò che mi amava, che non poteva vivere senza di me, che avrebbe fatto qualsiasi cosa, pagato qualsiasi prezzo pur di restare con me. Non era vero, naturalmente. Stava recitando una parte, senza neppure rendersene conto. Voleva dimostrare a se stesso di essere il più forte. Di essere invincibile. Che niente e nessuno avrebbero potuto fermarlo.

Continuando a sorreggerlo, lo condussi accanto al ragazzo addormentato e lo feci inginocchiare vicino a me sul pavimento. Afferrai la mano del ragazzo e gli scoprii il polso. Affondai i denti con delicatezza, per non svegliarlo. Bevvi appena un paio di sorsi. Guardai David dritto negli occhi, e gli accostai alle labbra la vena aperta. Lui non si mosse. Cominciò a tremare, sempre più forte. Rimase lì a fissarmi, il polso del ragazzo a pochi centimetri dalla sua bocca. Gli attimi scorrevano, lenti. Attesi a lungo, non perché nutrissi dubbi su ciò che avrebbe fatto, ma per essere sicura che avesse afferrato bene tutte le implicazioni della situazione. Poi allontanai da lui la vena, la baciai per richiuderla e posai il polso sul letto. Senza pronunciare parola, presi il mio cappotto, il cappello, e mi avviai verso la porta.