SENZA LUNA
Così iniziò il mio primo viaggio nel Cinerarium.
Persa nell’incoscienza e nell’oscurità, sentii forti colpi battere dentro di me con un rumore cupo e profondo. Erano ritmati, incessanti, lenti. Era il mio cuore.
Le sensazioni vagavano senza trovare sensi a cui aggrapparsi. Sentivo suoni con la bocca, suoni neri, gli occhi toccavano superfici scivolose e fugaci, le mani vedevano burroni e solitudine. Non c’è modo di descrivere la confusione in cui stavo precipitando. Ero sveglia, ma non capivo. Non capivo cosa stesse succedendo, dov’ero, dove stavo andando, se stavo andando da qualche parte.
Per un momento, credetti di morire.
Poi, d’improvviso, ansimante, aprii gli occhi e un bagliore bianco mi travolse. Fui costretta a chiudere ancora le palpebre. Mi misi a sedere di soprassalto e cercai di calmarmi. Era impossibile.
Quando tornai in me, riuscii a capire che ero a terra. Sotto di me sentivo come della sabbia. Le mie mani affondavano lentamente in un cumulo di granelli.
Socchiusi le palpebre e feci avventurare lo sguardo in quel nuovo mondo. Sembrava un’allucinazione.
Davanti a me c’era un deserto, un deserto grigio. E sopra… Sì, sopra di me, un cielo bianco.
Guardai con più attenzione cosa stavano cercando di stringere le mie dita. Assomigliava alla sabbia. Sabbia sbiadita. Ma più leggera, tanto che quando alzai il braccio, parte di essa si sollevò nell’aria e ricadde lenta, come sospesa.
Sembrava proprio cenere. Ed era di cenere l’odore che effondeva.
A fatica mi misi in piedi. Era difficile muoversi su una superficie così instabile e imprevedibile. Sollevai con me una nuvola, che andò a spargersi sulle dune.
Seguendola turbinare, finii per guardarmi il vestito. Non me n’ero accorta prima perché ero troppo agitata. Avevo indosso l’abito lungo viola “delle occasioni speciali”, lo stesso che portavo all’appuntamento con Esteban.
Non volevo sapere come mai lo indossassi, di certo non me lo aveva messo qualcuno, come di certo nessuno mi aveva portato lì. Era stato come sprofondare in una pozzanghera di profumo, di cui non si vedeva il fondo.
Solo allora tornai a fissare quel cielo bianco che sembrava non esserci, quasi una mano gigantesca lo avesse cancellato. Lo guardai attentamente. Era strano, non solo era bianco, ma la sua volta era cosparsa di crateri.
“Oddio!” pensai. Quel cielo era solido, un muro, una gigantesca cupola.
Mi misi a girare in tondo, guardando in alto e verso orizzonti che le dune non mi permettevano di trovare. Sembrava la luna, sembrava di essere dentro la luna.
Poi vidi il buco.
Mi fermai.
Nel cielo, se potevo chiamarlo così, c’era un tondo, un foro, nero come la notte. E forse era davvero la notte, perché se tutto il resto era occupato dalla pelle della luna, un po’ di notte, da qualche parte, doveva per forza esserci.
Ero in un deserto di cenere, sotto un cielo di luna, al cui centro si trovava un buco di notte.
E non c’era nessuno.
Dopo lo stupore, che mi aveva salvata dall’agitazione, il panico mi afferrò la gola. Ero sola, in un luogo che non poteva esistere.
Cercai di controllare il respiro sempre più affannoso e, più mi sforzavo, più i polmoni pompavano dentro di me quell’aria che sapeva di fuliggine.
In quel momento capii davvero cos’è la paura. Tremavo. Tremavo. E non avevo freddo.
Mi strinsi nelle braccia, per provare a tenermi compagnia e fermare i tremiti. Non servì a nulla. Ai brividi si aggiunsero solo lacrime, che andarono a bagnarmi il viso.
Lasciai uscire quello che avevo dentro. Non potevo trattenerlo e non volevo. Speravo che, piangendo, tutto quel mondo assurdo se ne sarebbe andato. Speravo che, stringendo gli occhi il più forte possibile, mi sarei risvegliata in quel giardino di iris.
Per fermare le lacrime, strizzai forte le palpebre, da farmi male, ma quando le riaprii ero ancora là. Persa, in una prigione infinita, senza mura.
L’enorme desiderio di fuggire mi fece scattare le gambe.
Provai a correre verso la cima di una duna, ma i miei passi erano lenti e goffi. I piedi sprofondavano nella cenere ed era faticoso fare anche un solo metro. Nessuno mi avrebbe trovata, nessuno.
La duna era ripida e le mie gambe troppo spaventate per affrontarla. Scivolai e caddi.
E là rimasi a piangere con le mani sugli occhi.
Non so per quanto tempo restai in quella condizione. Reagire era difficile. Mi rimproveravo dicendomi che sarebbe tutto finito se solo avessi fatto un altro piccolo sforzo. Dovevo fare qualcosa, sapevo di doverlo fare, ma non sapevo cosa.
Alla fine anche la paura se ne andò. Dovevo affrontare la situazione con la maggiore lucidità possibile.
Ero in quel deserto. Nessuno mi avrebbe cercata. Potevo contare solo su me stessa.
“E allora, andiamo” mi dissi.
Tornai in piedi, mi asciugai le ultime lacrime e con determinazione continuai a scalare la duna.
Era alta, ma quando arrivai in cima sentii un sollievo infinito.
Infinito, come il panorama che avevo davanti.
Al di là della duna, potevo scorgere degli edifici, forse una città. Se ciò che vedevo non era un miraggio, là avrei trovato, probabilmente, delle persone.
Mossi un passo e la sabbia grigia cedette sotto il mio peso.
Per non affondare, ero costretta a correre e quell’abito mi complicava le cose. Precipitando giù per il pendio, rischiai di cadere in avanti diverse volte.
Ridiscesa la duna, rallentai il passo. Mi accorsi che il terreno diventava più compatto procedendo verso la città. Non era proprio solido, un po’ come camminare sulla spiaggia.
Mi storsi una caviglia e maledii il diavolo che aveva architettato tutto quello. Quando alzai la gamba per massaggiarmi, mi accorsi che, ai piedi, indossavo scarpe coi tacchi. Se le avessi notate fin da subito sarebbe stato tutto molto più semplice: le sfilai e le lanciai lontano accompagnandole con un grido di rabbia.
Strappai anche parte della gonna che continuava ad andarmi sotto i piedi.
Arrivai agli edifici. Senza punti di riferimento era difficile capire le distanze, ma forse avevo percorso un paio di chilometri.
«Ma che inferno è questo…» bisbigliai.
Quelle parole, sussurrate così, ad alta voce, mi fecero provare sulla pelle una sensazione strana, lo stesso brivido di quando, una volta, da piccola, mia madre mi aveva persa di vista al supermercato.
Non ero in una città.
Gli edifici che avevo visto da lontano, neri e radi, sembravano rovine di un incendio.
Camminai fra quelle strade immense, in realtà, solo sentieri di cenere, guardandomi intorno e cercando di pensare che le cose sarebbero migliorate.
Qualcuno doveva pur esserci! Sembrava di stare in uno di quei maledetti film sugli zombie che Leonard ci faceva vedere. Non c’era nulla di rassicurante in quello che mi circondava. Non c’era nessuna logica nel modo in cui erano sistemati i palazzi, sembravano lanciati in quel deserto come dadi.
Alcuni apparivano storti, altri sprofondati per metà nella sabbia e altri ancora completamente capovolti o distesi. Era decisamente inquietante.
Quel paesaggio devastato non era cosparso solo di palazzi, ma anche di auto bruciate e mezze distrutte, camion carbonizzati, strutture industriali divorate dalle fiamme e persino navi.
Tutto quello che si poteva immaginare, ma bruciato.
Rimasi immobile a pensare cosa potesse essere, cosa potesse significare. Non ci sarei arrivata nemmeno in un migliaio d’anni. Forse era quello il tempo che avrei trascorso lì. Non avevo la minima idea di come potesse scorrere il tempo in un posto in cui la luna è un buco fisso nel cielo.
Poi, d’improvviso, accadde una cosa che mi lasciò scioccata. Indietreggiai stringendo le mani.
Una folata di vento arrivò dalla mia destra e investì un palazzo.
Non potevo credere a quello che stava accadendo. Un intero palazzo, che fino a un istante prima mi sembrava solido, si dissolse pian piano, sgretolandosi in minuscoli pezzettini leggeri. Venne portato via dalla corrente. Anche quello era di cenere.
Tutto era di cenere.
Un mondo grigio fatto di cenere.
Seguii la nube, che per un attimo sembrò dissolversi. Ma poi la vidi infittirsi, tornare più spessa e alla fine ricomporre il palazzo in un altro punto, identico a prima.
«Questa è follia…» sussurrai.
I miei nervi, che si erano trattenuti anche troppo a lungo, cedettero e urlai.
«Voglio andare via! Voglio andare via da qui!»
La mia voce si espanse in ogni direzione. Nessun’eco mi rispose. Forse sbriciolò solo qualche altro muro.
Avvertii un movimento alle mie spalle.
Era un fruscio. Uno strascicare di piedi.
Voltai la testa lentamente. Non sapevo cosa aspettarmi.
Con la coda dell’occhio, intravidi la sagoma di un uomo. Mi girai di scatto e, proprio in quel momento, la figura si trasformò in polvere. Svanì nell’aria.
«No!» urlai tendendo d’istinto una mano, con l’idea di poterla fermare. Un secondo dopo, senza nemmeno darmi il tempo di preoccuparmi, qualcosa mi afferrò al collo.
Forte.
Da farmi male.
Mi divincolai appena in tempo e riuscii a liberarmi. Quando mi voltai, vidi una figura orribile, terrificante, capace di uccidere, di fermare il cuore.
Davanti a me c’era una creatura che di umano aveva solo braccia e gambe. Un corpo bruciato, privo di sguardo, con la mandibola spalancata e cadente, da cui usciva un urlo rauco. Sembrava soffrire e, allo stesso tempo, aveva tutte le intenzioni di far soffrire me.
Indietreggiai terrorizzata. Quello che avevo provato, appena catapultata in quel mondo, non era nulla paragonato alla sensazione di morte che mi assalì in quell’istante.
Ogni muscolo del mio corpo era teso, come corde sfilacciate che tenevano sospesa un’incudine. La creatura si muoveva in modo scomposto e tendeva le dita verso di me. Dalla sua carne grigiastra e screpolata si staccavano pezzi di cenere. Era come se non mi vedesse, come se mi percepisse soltanto.
Non pensai di poter fuggire. La paura, che mai per me era stata così vera, mi inchiodò i piedi al suolo. Sentivo le vene pulsare nel collo, l’aria che si bloccava in gola.
Dietro all’essere immondo, ne stavano comparendo altri.
Uscivano dai palazzi, si sollevavano dal terreno, strisciavano fuori dai finestrini delle carcasse d’auto. Non era un incubo, ma desideravo tanto che lo fosse.
Erano decine di incubi insieme e io ero terribilmente sveglia.
Sentii una voce.
«Ehi! Da questa parte!»
Mi voltai piena di speranza.
Sopra il vagone di un treno, che sembrava deragliato ed esploso, distinsi la sagoma di un ragazzo.
Era lì, in piedi, con una maglia bianca che si muoveva al vento. Mi tendeva la mano.
Questo mi bastò per decidere che la mia vita non finiva quel giorno.
Scattai verso di lui, cercando di dimenticare cosa mi stava inseguendo. Sapere che qualcuno mi poteva aiutare mi diede la forza di correre.
L’idea che avremmo potuto morire entrambi non mi sfiorava neppure. E comunque, se proprio dovevo morire, almeno non sarei morta da sola.
Arrivai vicino al vagone ribaltato e mi aggrappai alle sporgenze, per arrampicarmi. Sentii che qualcosa provava ad afferrarmi una gamba, ma la mano del ragazzo comparso dal nulla fu più veloce.
Mi prese per un polso e mi tirò su.
«Forza! Svelta!»
Con un calcio riuscii a liberarmi dalla stretta di cenere e mi aggrappai con entrambe le mani al suo braccio. Feci forza e, con il suo aiuto, riuscii a salire sul vagone.
Ero scioccata. Non capivo cosa stesse succedendo e stentavo a credere di essere ancora intera.
Le mani del ragazzo si posarono sulle mie spalle. Era una stretta gentile e decisa. Solo a quel punto riuscii a sollevare la testa e a guardarlo.
«Stai bene?» mi chiese.
Era stupendo. D’una bellezza disarmante. Aveva un viso fine, dai lineamenti sfuggenti. Cercò di sorridermi, e due piccole fossette gli si formarono ai lati delle labbra. Poi tornò serio.
«Stai bene?» ripeté con una voce che adesso potevo distinguere meglio. Profonda e calma.
Non riuscii a rispondergli. Ero ancora terrorizzata dalle creature di cenere. Abbassai lo sguardo, per vedere se stavano ancora tentando di raggiungerci.
Erano troppo stupide per provare a risalire il vagone, ma, se avessero continuato ad ammucchiarsi una sull’altra, prima o poi ce l’avrebbero fatta.
«Allora! Stai bene?» disse per la terza volta, scuotendomi un po’, senza badare ai modi.
«Sì!» gli risposi scostandolo.
Poteva anche essere carino e avermi salvata, ma non accettavo che mi parlasse in quel modo.
Lui rimase perplesso e scosse la testa. Poi batté le mani sulle gambe e mi fissò con uno sguardo infastidito.
I capelli neri gli ricadevano appena sugli occhi e la pelle, chiara, quasi bianca, lo faceva sembrare un angelo. Un angelo suscettibile e arrogante.
Stavo per reagire malamente a quel suo irritante silenzio, ma i suoi occhi ebbero il potere di calmarmi. Erano terribilmente affascinanti, magnetici. Dovevano aver visto cose orribili, eppure conservavano ancora tracce di dolcezza. Mentre li socchiudeva appena, per indovinare cosa stavo pensando, ne vidi il colore.
I colori.
Perché i suoi occhi erano un arcobaleno iridescente.
Erano raggi di sole riflessi nell’acqua.
Ogni sfumatura possibile appariva e compariva come le ali di certe farfalle.
Poi, scoppiò a ridere in modo irriverente.
«Non ti conviene avvicinarti così al bordo» disse.
Mi guardai i piedi e mi accorsi di essere proprio in bilico. Sotto di me, le creature di cenere tentavano di afferrarmi la gonna strappata.
Urlai e feci un passo in avanti. Per poco non andai a sbattergli contro.
«Beh, grazie tante per avermi salvata!» gli dissi cercando di ricambiare i suoi modi.
«Non c’è di che» mi rispose alzando le sopracciglia.
All’improvviso un’espressione preoccupata turbò il suo volto magnifico.
«Ehi, che ti succede?» esclamò facendo per toccarmi.
Sentii la testa che cominciava a girare. Stavo perdendo l’equilibrio. Quella era la sensazione che avevo provato poco prima di addormentarmi.
La paura di cadere dal vagone non bastò a trattenermi e l’ultima immagine che ricordo, mentre precipitavo all’indietro, furono gli occhi spalancati del ragazzo e i loro mille colori. Provò ad afferrarmi, ma ormai stavo scivolando nel buio.
La vertigine mi travolse e mi trascinò via.
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