Iniziamo con le consuete presentazioni. Chi sei?
Uno che scribacchia fumetti e libri di genere e cerca di divertirsi nel farlo.
Altra domanda facile e di rito. Come ti sei appassionato alla scrittura?
Volevo un’alternativa fisicamente meno faticosa rispetto al fare il calciatore o il tronista. Quando ho scoperto quanto poco si guadagnasse scrivendo e quanto poco famosi rendesse l’essere scrittore, era tardi per un qualsiasi piano B.
Sei anche uno sceneggiatore di fumetti e cortometraggi. Quanto del tuo stile da sceneggiatore troviamo nei tuoi racconti e romanzi?
Il mio stile è molto asciutto, pure troppo. Del resto se una descrizione fisica o di ambiente non serve, chessò, a determinare uno stato d’animo o a caratterizzare un personaggio, perché inserirla? Perché dovrebbe fregarmi del colore dei capelli di un personaggio se questo particolare non mi sarà di qualche utilità nell’intreccio? Se non mi serve, non ne parlo. Credo che questo derivi dal fatto che quando sceneggio do appunto solo le informazioni essenziali al disegnatore.
O forse ho solo urgenza di raccontare e non mi piace perdere tempo.
O forse sono solo pigro e voglio scrivere meno possibile.
Collegandomi alla domanda precedente ti chiedo: l’idea del tuo primo libro (o secondo libro in prosa, come preferisci), Il ghigno di Arlecchino, com’è nata? E’ stata pensata come romanzo fin dall’inizio o c’erano gli spunti per una sceneggiatura?
Il ghigno di Arlecchino nasce come soggetto per un fumetto. Quando mi è stato chiesto da Asengard di proporre un romanzo New Weird, ho sottoposto diverse sinossi, tra cui questa (mi sembra fosse la quarta).
Il nocciolo dell’idea risale alla mia adolescenza e dalla lettura del racconto Pentiti Arlecchino, disse l’Uomo del Tic-Tac di Harlan Ellison. Mi aveva affascinato l’idea di una figura portatrice di disordine in una società regolamentata in maniera opprimente, e da lì sono partite alcune mie riflessioni personali che hanno “riempito” la maschera con la figura mitologica del trickster.
Ritorniamo alle domande di rito. Ti senti più scrittore o sceneggiatore? Quale stile riesci a padroneggiare meglio e quale ti dà/ha dato maggiori soddisfazioni?
Non ho preferenze. A me piace raccontare storie, o giocare e pasticciare con le parole (o con parole e sequenze di immagini): spesso voglio fare entrambe le cose. Alcune storie hanno una resa migliore a fumetti, perché alcune situazioni secondo me sono più efficaci se raccontate tramite immagini. A volte certe storie sono raccontate in maniera più concisa con i fumetti, altre volte in prosa. È un problema di sintesi, e amo la sintesi (come si vede da queste risposte chilometriche. Amo contraddirmi).
A volte invece è proprio il caso che interviene, come per Arlecchino, che avrebbe potuto essere declinato in tutte e due le forme ed è diventato un romanzo (ma non è detto che in futuro non diventi anche fumetto).
Comunque il bello del fumetto è che è un medium collaborativo. Quello che non mi piace del fumetto, invece, è che un medium collaborativo. Il bello della prosa è che fai tutto da solo, e sei l’unico responsabile del risultato finale. Ed è anche l’aspetto che non mi piace. Chiaro, no?
La figura mitologia e folkloristica del “Trickster” è la base per l’Arlecchino. Ma il Barone “padreautore” ha dato vita alla sua creatura ispirandosi ad altri personaggi? Persone reali, amici, parenti, se stesso?
Arlecchino è (anche) una riflessione sui limiti dell’immaginazione che a furia di riflettere sull’ego diventa solo esercizio masturbatorio. Da qui il nome del “padre” (anche se è più un “creatore”) del protagonista, che permette anche una riflessione meta-narrativa: il fallimento del Barone nel libro è anche il fallimento della mia scrittura, intesa come manifestazione di un ego da cui temo di non riuscire a sfuggire. Per questo nel romanzo ho accostato la figura del Barone (fittizio) a quella di Arlecchino, portatore di caos: nel tentativo di scrivere di un archetipo così forte come il trickster, ho cercato di mettere da parte l’ego. Questo è un esercizio che suggeriva anche William Burroughs, ovvero “di scrivere parole che non vengono da sé”. Come primo esperimento è stato interessante (a livello di pratica: non so se anche il risultato lo sia) e probabilmente lo approfondirò in futuro.
Il genere New Weird in Italia. Come lo collochi rispetto alle produzioni straniere dello stesso genere?
Il New Weird in Italia non esiste, come non esiste un mercato o una “scena” del fantastico nostrano. So solo del tentativo di Asengard di presentare il genere scritto da autori italiani con la collana Wyrd. Se ci sono altri esperimenti, o non sono “espliciti” (cioè l’autore non dice di scrivere New Weird) o sono disponibili in rete, ma non li conosco io (mea culpa). In ogni caso, citando Francesco Dimitri, siamo ancora in una fase in cui possono uscire singoli bei libri e/o singoli libri di successo, ma in cui manca un “sistema”.
Se negli USA e in UK l’etichetta “New Weird” è stata almeno premiata da riconoscimenti critici e ha dato un minimo di identità a chi voleva scrivere fantastico non derivativo da Tolkien, non credo che in Italia avrà lo stesso effetto. Crei interessi SOLO se vendi copie. Il romanzo fantastico o New Weird che fa centomila copie in Italia non c’è ancora stato. Se mai ci sarà, forse qualcuno si porrà anche il problema di “cosa sta succedendo nel panorama fantastico italiano e possiamo scrivere un altro best seller dello stesso genere/tipo?”.
Per un autore/lettore che approccia per la prima volta al “bizzarro”, quali sono gli scrittori, i registi e, come nel tuo caso, gli sceneggiatori da cui prendere spunto? Quali potrebbero essere, secondo te, i “must” del New Weird?
Sul New Weird per quanto mi riguarda l’unico must è China Mieville. La sua inventività non ha paragoni, e se leggo New Weird voglio, tautologicamente, weirdness.
Ma direi di non prendere spunto da nessuno, se non dal proprio marciume interiore. Se nomino Takashi Miike, qualcuno mi può citare qualche altro regista che sarà sempre un passo più in avanti nello spingersi oltre i limiti del rappresentabile. Lo schifo è dentro. E lo schifo interiore è una cosa meravigliosa e va coltivato e sfruttato per quello che si vuole scrivere, proprio perché è così meravigliosamente personale.
Se proprio devo, consiglio la visione dei film delle cinematografie dell’estremo oriente per la loro allegra mescolanza di generi che in occidente non accosteremo mai.
Comunque le mie riflessioni partono spesso dal cinema perché non trovo in prosa la medesima forza dirompente che trovo in certi film. Invece scrittori in grado di essere inventivi sia a livello di contenuto che linguisticamente… non mi vengono in mente nomi successivi a William Burroughs.
Progetti per il futuro. Puoi parlarne? Un altro romanzo?
Non potrei, ma lo faccio lo stesso. Un fumetto di cento pagine (forse qualcosa di più) che parla di insetti, una love story action in uscita per Lucca 2011. E un romanzo breve, un thriller politico ambientato in un’Italia del prossimo futuro, ma non so se uscirà in tempo per il 2011 anche questo. Poi non so, potrei anche smettere di scrivere, dipende dall’umore dall’anno prossimo. Senz’altro continuerò finché mi diverto, che poi è la mia unica motivazione.
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