Morven non aveva mai incontrato Kel, ne aveva solo sentito parlare. Tutto l’Arun ne aveva sentito parlare. Ma il Clan Rosso raramente si spingeva a settentrione. Era un lungo viaggio arrivare fino alle Rocche.
Cinque anni prima una spedizione ceara aveva fatto una sosta a Tornor. Proveniva dalle Colline Rosse ed era diretta a Tezera, ma Kel non ne faceva parte.
In quell’occasione aveva osservato i guerrieri ceari danzare nella Piazza d’Armi. Kerris ricordava la grazia astratta, concentrata, con la quale i cearivolteggiavano, oscillavano e saltavano.
Poi, un anno dopo, all’improvviso, aveva cominciato a provare la sensazione di trovarsi contemporaneamente in due corpi: nel suo e in quello di suo fratello. Sulle prime ne ne era stato terrorizzato, non riusciva a comprendere, temeva di diventare pazzo. Dopo un po’ si era però resoconto che quei momenti di contatto non gli nuocevano. Non si verificavano più di una volta ogni due o tre settimane, e quando gli capitava in pubblico, lui si scusava definendoli attacchi.
Quel giorno, sulle mura della Rocca, Kerris ne parlò a Josen.
Il vecchio lo ascoltò serio, poi gli chiese: – Sono dolorosi?
– No.
– Spiacevoli?
Kerris cercò di rispondergli con sincerità.
– No. Però mi colgono di sorpresa.
Josen sospirò: – Mi spiace, Kerris – disse. – Non so proprio spiegarti quale sia la loro natura.
Kerris ne fu scioccato. Aveva sempre creduto che Josen sapesse tutto, be’, quasi tutto. Strane idee gli balenarono per la testa. Forse era posseduto da un demone. Ma non sarebbe servito a nulla dirlo a Josen perché il vecchio Scolaro non credeva ai demoni.
– E secondo te, cosa dovrei fare? – chiese.
Josen tirò su la fascia. Era un gesto che compiva nei momenti di imbarazzo.
– Potresti parlarne alla Guaritrice del villaggio.
Ancora una volta Kerris rimase sorpreso. Di solito Josen non si esprimeva con favore a proposito della Guaritrice del villaggio, una vecchia chiamata Tath, di pessimo carattere, che era nota soprattutto come esperta di pozioni estratte dalle erbe.
Kerris sapeva che Tath non poteva offrirgli alcun rimedio per ciò di cui soffriva, e nello stesso tempo temeva che quello che poteva dirgli, avrebbe alimentato i suoi timori.
– Tath sa curare la polmonite – disse. – Non credo proprio che riesca a guarirmi dal mio problema.
– Se non ti danneggiano, non preoccupartene. Lascia che vadano e vengano. Cesseranno, e non c’è bisogno di forzare le cose. – Josen si espresse con un’autorità che per il tredicenne Kerris fu assai rassicurante.
Però gli rimase il dubbio se consultare o meno la vecchia Tath. Si grattò il moncherino che aveva cominciato a prudergli.
– Che c’è? – chiese Josen.
– Ho avuto un attacco stamattina, in cucina – disse.
Josen contrasse le labbra.
– È stato preoccupante?
Kerris scosse la testa: – No, ci sto solo pensando.
– Sai – fece Josen, – io non so nulla di queste cose. Ma forse nelle città possono esserci persone in grado di aiutarti.
Kerris rise. – Ma no, Josen, non ti preoccupare. È difficile che vada a Tezera. Inoltre ci sono abituato, non mi danno fastidio. – Non mi darebbero fastidio se sapessi cosa sono, pensò fra sé. Eppure non desiderava esserne privato. In quei brevi momenti di contatto, sapeva cosa si provava a vivere in un corpo che non era mai stato mutilato.
Cinque anni prima, quando aveva compiuto dodici anni, Kerris era stato convocato nelle stanze di Morven. Vi era andato impaziente. A dodici anni i ragazzi ella Rocca dovevano cominciare a esercitarsi quotidianamente nella Piazza d’Armi per apprendere le abilità che li avrebbero resi adulti (o adulte), o addirittura dei ceari.
Il suo amico Tryg ci era già passato e in quella occasione suo padre gli aveva dato, com’era tradizione, un piccolo ma utile coltello. Quando Kerris era entrato nella camera del Signore, riusciva già quasi a sentire nella cintura il coltello che si aspettava di avere. Ma Morven non glielo aveva dato. Invece gli aveva detto: – La Piazza d’Armi non è per te. Il Maestro sprecherebbe il suo tempo se cercasse di insegnarti l’arte del combattimento o di fare di te un ceari. Sei figlio di mio fratello, e avrai sempre una casa qui. Ma di più – e aveva guardato la spalla destra di Kerris, con la manica vuota, – è fuori dalla tua portata. Tu invece sarai più utile come allievo di Josen.
Seppur deluso, sul momento Kerris aveva pensato che fosse una buona idea: in quel modo avrebbe potuto farsi una posizione. Quel lavoro era buono come qualsiasi altro. Lui aveva imparato ad amare la Rocca, e le montagne che si ergevano dietro di essa, come la spina dorsale della terra. Amava quella terra in estate; amava la steppa, l’erba fitta color del miele, ondeggiante al vento. Ma era comunque improbabile che avrebbe mai avuto una possibilità di lasciarla. Forse per questo vi si trovava tanto bene.
Si distolse da quel ricordo e appoggiò la mano sulla spalla di Josen: – Andiamo, vecchio, torniamo al lavoro.
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