– Mi hai chiamato vecchio, eh! – Josen finse di offendersi. – È questo il rispetto che porti al tuo maestro? Modera i termini, o altrimenti non ti aggiusterò la penna.
Kerris sogghignò: – Sì signore, chiedo scusa signore – borbottò.
– Mi serve dell’altro inchiostro – disse Josen smettendo di scherzare. – Maledetti mercanti.
Quella notte Kerris non andò a dormire nella caserma. Josen di solito non consumava il pasto mattutino, perché pensava che fosse indecoroso mangiare prima di mezzogiorno. Kerris perciò attese fino a quando fu sicuro che l’Uovo si fosse ritirato, poi scese nella cucina.
Paula sedeva accanto al fuoco. La baciò sulla testa: la pelle rosea del suo cuoio capelluto traspariva dai radi riccioli grigi.
– Huh.
– Buon giorno.
– Lo è?
– Fa più caldo di ieri – disse Kerris.
– Huh. – Il verso di stizza trasmetteva il suo disprezzo per quel debole tentativo di primavera settentrionale. – Dove vai?
– Bevo qualcosa di caldo, se me lo dai, poi v ado al recinto delle galline. Mi occorrono delle penne.
Vuotò la coppa di dolce tè che la donna gli porse prontamente, poi si allontanò. – Grazie, ci vediamo più tardi.
Mentre procedeva per andare nel recinto dei polli, una musica raggiunse le sue orecchie. Alzò gli occhi: Idrith suonava il flauto. Le altre sentinelle ascoltavano, immobili. Le vibrazioni soavi fluivano attraverso le mura e il cortile.
Kerris sospirò: gli sarebbe piaciuto imparare a suonare, ma non aveva avuto il coraggio di chiederlo... e poi non aveva mai visto o sentito parlare di uno strumento che si potesse suonare con una sola mano.
Quando entrò nel pollaio maleodorante, dall’estremità della sua pastoia, il gallo lo osservò con sospetto.
– Stai tranquillo – gli fece Kerris. – Non voglio prendermi le tue mogli.
Trovò tre bianche penne d’ala e una penna grigia di coda d’oca che facevano al caso suo. Le portò a Josen, il quale prese dal cassetto un piccolo coltello affilato e con brevi e abili colpi foggiò la punta.
– Com’è il tempo? – chiese.
– Più caldo di ieri.
– Nessuna notizia dei mercanti?
Kerris scosse la testa.
Josen brontolò: – Ho pensato... Che potrei scrivere una lettera al Capo della Corporazione degli Scolari a Kendra-Sul-Delta. Se sei d’accordo potrei scrivergli così:
“Caro Signore, Vi presento un giovane e valente discepolo, di nome Kerris, nipote di Morven, Signore della Rocca di Tornor. È stato mio allievo e, per così dire, collega, per due anni. E così via...”
– Cosa ne pensi?
– Io... io non so.
– Bene, rifletti. E dimmelo quando ci avrai pensato.
– La Corporazione degli Scolari prenderebbe in considerazione una lettera del genere?
– Sì, se la scrivessi io – disse Josen. – Potrebbero trovarti un incarico presso, non so, una delle grandi Casate cittadine, in qualità di impiegato o di storico. – Lanciò una rapida occhiata a Kerris. – Se il latore della lettera volesse un tale incarico, cioè.
Il moncherino di Kerris cominciò a dolere. Ne toccò l’estremità, dove la pelle era spessa e sfregiata dalle cicatrici. Paula gli aveva raccontato che gliel’avevano cauterizzato con la lama arroventata di un coltello per arrestare l’emorragia.
– Quale grande Casata potrebbe volermi? – chiese.
– Non essere stupido – disse Josen. – Tornor non è il mondo. Ami tanto questo posto che soffriresti a doverlo lasciare?
Kerris non rispose.
– Considera – disse il vecchio. – Se tu...
Si interruppe perché dalle mura giunse chiaro il suono di un corno. Josen si voltò verso la finestra, poi ripose il coltello e la penna.
Il corno avvertiva: “Si avvicinano degli stranieri”.
– Finalmente – disse il vecchio. Nel cortile riecheggiarono piedi che correvano. Il corno suonò ancora, ma questa volta con un tono diverso. Kerris tradusse automaticamente il messaggio: “Si avvicinano degli stranieri a cavallo dalla via occidentale”.
– Altri quattro giorni e sarei rimasto senza inchiostro – disse Josen. – Andiamo sulle mura?
Si incamminarono verso la scala, quando la voce di Tryg annunciò: – Le carovane non vengono dalla strada occidentale – disse. – Non possono essere i mercanti.
I bastioni si affollarono di scudieri, sguatteri e cameriere.
Morven era impaziente. La regola richiedeva che aspettasse all’interno della corte. Non si addiceva al Signore guardare dalle mura.
– È un corriere della Rocca delle Nuvole – urlò la voce di un uomo.
– No. È un gregge di pecore! – disse un altro.
Sotto le mura i cani cominciarono a latrare in tumulto.
– Ehi, qualcun altro dia un’occhiata.
– Riesci a scorgere qualcosa? – chiese Josen.
– Solo dei cavalieri – disse Kerris, poi si aggrappò saldamente a una pietra sporgente e si sollevò fino alla feritoia più vicina, puntando saldamente i piedi contro il merlo. Guardò a est, ma non c’era n essun carro sulla strada. Poi si volse verso ovest e vide dei cavalieri. Li contò: erano sette, e un cavallo era privo di cavaliere. Il primo cavalcava avanti agli altri: la luce del sole si rifletteva sui suoi capelli folti, biondi e lunghi fino alla vita, legati con la fascia rossa di un ceari.
– Cosa vedi?
La voce di Josen pareva giungergli da molto lontano. La gente sulle mura si scambiava esclamazioni. Le gambe di Kerris vacillarono. Li conosceva: Jensie, Riniard accanto a lei, Elli e Ilene come ombre, e poi Calvin, piccolo e vigoroso, Arillard, silenzioso e austero. Kerris si sedette nello spazio tra i merli. Li conosceva tutti.
– Che c’è? – disse Josen.
– Dai, Kerris, di’ qualcosa – incalzò Tryg.
Aspettarono la sua risposta. Sollevò il mento.
– Sono ceari.
Per lui non era necessario dire altro.
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