Aogni modo, trovai ciò che cercava Jessica Sorrow, e adesso si trovava nella scatola da scarpe che stringevo al petto. Jessica sapeva che era là, e stava venendo a prenderla. Il mio lavoro consisteva nel donargliela nel modo giusto, così da disinnescare la sua rabbia e farla smettere di spaventarci a morte. Ammesso, ovviamente, che avessi trovato la cosa giusta.
E che lei non irrompesse e mi facesse sparire con la sua incredulità.
Adesso era fuori dalla chiesa. Il solido lastricato sotto ai miei piedi vibrava forte, rimandando l’eco dei suoi passi in avvicinamento, che si abbattevano con pesantezza sul mondo a cui si rifiutava di credere. Le fiammelle di tutte le candele danzavano furiosamente, e attorno a me guizzavano le ombre, come se anche loro fossero impaurite. Avevo la bocca asciutta, e stringevo la scatola talmente forte da sformarla.
Mi costrinsi a rimetterla sulla panca, poi mi drizzai e infilai le mani nelle tasche dell’impermeabile. Apparire noncurante era fuori questione, ma non potevo permettermi di sembrare debole o titubante in presenza di Jessica Sorrow l’Incredula.
Avevo sperato che i secoli di fede e santità accumulati dalla chiesa di San Giuda mi offrissero una qualche protezione contro la forza dell’incredulità di Jessica, ma non ne ero più certo. Ormai stava arrivando, come una tempesta, una marea, un’implacabile forza della natura che mi avrebbe spazzato via in un istante. Stava arrivando, come il cancro o la depressione, e tutte le altre cose che non si possono respingere o superare. Era l’Incredula, e a confronto la chiesa di San Giuda non contava niente, e neppure io... Feci un respiro profondo e tenni la testa sollevata. Che andasse al diavolo. Accidenti, io ero John Taylor, e con la persuasione ero riuscito a tirarmi fuori da pasticci ben più grossi. L’avrei convinta a credere in me.
La pesante porta di quercia era rinforzata da massicce lamine di ferro nero. Doveva pesare come minimo duecento chili. Eppure, non riuscì neanche a rallentare Jessica. I suoi piedi tonanti marciarono fino alla porta, poi affondò le dita nello spesso legno e lo squarciò come una stoffa. L’intera porta si sfasciò tra le sue mani e Jessica la attraversò come fosse una tenda. Percorse a passi lunghi la navata laterale per venirmi incontro, svestita, emaciata e d’un pallore cadaverico, facendo disintegrare il pesante lastricato sotto i passi dei suoi piedi nudi. Aveva gli occhi spalancati e fissi, concentrati e freddi come quelli di un gatto selvatico. Le sue labbra sottili erano tese in quello che pareva tanto una smorfia quanto un sorriso. Era senza capelli, un volto scarno e contratto come il resto di lei, e due occhi gialli come l’urina. Ma aveva una forza, un’energia tremenda che pur divorandola le dava la carica. Mantenni la mia posizione, restituendole ogni occhiataccia che mi lanciava, finché non si fermò bruscamente di fronte a me. Puzzava, come un qualcosa di guasto. Aveva le palpebre fisse e il respiro irregolare, quasi fosse un’azione che doveva ricordarsi di fare. Era alta a malapena un metro e mezzo, ma sembrava sovrastarmi.
Sentivo i miei pensieri e progetti disintegrarsi nella mia testa, travolti dalla forza della sua presenza. Mi sforzai di sorriderle.
«Ciao, Jessica. Ti vedo molto... te stessa. Ho quello che ti serve.»
«Come fai a sapere cosa mi serve?» disse lei con una voce spaventosa, perché quasi normale. «Come fai, se non lo so neppure io?»
«Perché io sono John Taylor, e riesco a trovare le cose. Ho trovato quello che ti serve. Ma tu devi credere in me, altrimenti non avrai mai la cosa che ti ho portato. Se sparisco, non potrai mai sapere...»
«Mostramela» disse, e io sapevo di aver tirato già abbastanza la corda. Allungai con cautela il braccio verso la panca, presi la scatola da scarpe e gliela donai. Lei me la strappò di mano, e il cartone si disintegrò sotto il suo sguardo, rivelando il contenuto. Un logoro e vecchio orsacchiotto di peluche senza un occhio. Jessica Sorrow prese l’orsacchiotto tra le sue mani cadaveriche, guardandolo e riguardandolo senza batter ciglio, e poi, finalmente, se lo avvicinò al petto raggrinzito e lo strinse a sé teneramente, come un bambino addormentato.
E io ripresi a respirare.
«Questo è mio» disse lei, con lo sguardo rivolto ancora all’orsacchiotto invece che a me, e di ciò gliene fui grato. «Era mio, quando ero piccola. Molto tempo fa, quando ero ancora umana. Non ci pensavo più... da tanto, tantissimo tempo...»
«È quello che ti serve» dissi con cautela. «Un qualcosa che abbia importanza per te. Che sia reale quanto te. Un qualcosa in cui tu possa credere.»
Jessica sollevò bruscamente la testa e rivolse il suo incrollabile sguardo su di me. Feci del mio meglio per non trasalire. Piegò la testa da un lato, come un uccello. «Dove lo hai trovato?»
«Al cimitero degli orsacchiotti.»
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