Zurigo, 1904. Il giovane psichiatra Carl Gustav Jung è affascinato dalle teorie di Sigmund Freud e dal metodo della psicanalasi (o psicoanalisi come preciserà più avanti lo stesso psichiatra viennese), e decide di sperimentarlo sulla paziente diciottenne Sabina Spielrein, alla quale è stata diagnosticata una grave isteria.
Ben presto il rapporto tra medico e paziente andrà oltre, diventando una relazione extraconiugale (Jung è sposato).
Parallelamente inizia un epistolario tra Jung e Freud, che poi diventa una frequentazione e un'amicizia.
Le due vicende in qualche modo s'intrecceranno e subiranno una loro evoluzione, una curva discendente e una frattura.
E' storia sulla quale ci sono ben pochi spoiler da fare, raccontata in libri, tra cui proprio quello di John Kerr, Un metodo molto pericoloso (1993), da cui è stato tratto un allestimento teatrale, scritto dallo stesso sceneggiatore di questo film, Christopher Hampton.
Purtroppo non sempre a belle e interessanti storie riescono a corrispondere film altrettanto interessanti e belli.
Nonostante la messinscena curata, con ottimi costumi e scenografie, il film in definitiva è sbagliato dall'inizio alla fine.
La fotografia di stampo televisivo, per scelta di illuminazione e di inquadrature, appare da subito sciatta e poco ispirata. La visionarietà di David Cronenberg, conosciuto dai nostri lettori per film come Videodrome, Scanners, Rabid, La mosca, Il pasto nudo tra i tanti, è asservita allle regole di una coproduzione internazionale che tende all'agiografia da fiction di prima serata di un canale nazional popolare.
In novantasei minuti poi sono tanti i temi che vengono buttati nel calderone, senza che vengano adeguatamente sviluppati. Interessante lo stridente contrasto di censo tra il ricco Jung e il quasi povero Freud per esempio, ma è affidato solo a un paio di casuali battute.
Il film non affonda mai il coltello insomma, non mostra mai la carne viva, cosa che al regista canadese è sempre riuscita benissimo.
Anche le scene in manicomio non urtano, mostrando una realtà molto edulcorata rispetto a quanto sappiamo avvenisse in realtà. Non sono più immaginibili delle rappresentazioni così limitative di certi luoghi e situazioni, come i manicomi, non ci meritiamo di essere preservati dalla verità su ciò che erano e rappresentavano.
Persino un tema molto interessante come la deriva junghiana verso il paranormale e il mistico, osteggiata dal più scientifico Freud, rimane un conflitto inespresso, appena accennato.
Nella sufficienza il cast. Michael Fassbender stavolta spicca per mancanza di avversari, tra una Kiera Knightley eccessiva e "attaccata alle tende", e il solito pallido Viggo Mortensen. Vincent Cassel è ingiudicabile, anche per un ruolo nella narrazione della vicenda parecchio marginale, una parentesi che aggiunge veramente poco, anche se in realtà il personaggio è un catalizzatore di eventi, ma è trattato male dalla sceneggiatura e da dialoghi scritti senza il senso del ridicolo.
Le musiche di Howard Shore sono professionali, rispettando i didascalici stilemi da prodotto televisivo, ma di quelli poco ispirati, fatti con lo stampino.
Non c'è niente da fare, la storia di Jung e di Sabina Spielrein al cinema non ha avuto la fortuna che merita, neanche stavolta ha trovato narratori adeguati.
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