Sandokan in tv: un imprinting nell’immaginario di due generazioni
di Marina Lenti
Non è facile spiegare alle generazioni cresciute a pane, playstation e Internet l’impatto che ebbe una co-produzione televisiva internazionale come quella di Sandokan nell’Italia del 1976, un Paese diverso anni luce, socialmente e culturalmente, rispetto a quello odierno. La televisione era da poco passata al colore e la RAI iniziava a cimentarsi in quella che, nei decenni seguenti, avremmo imparato a etichettare come ‘fiction’.
Nell’ingenuo e acerbo immaginario del pubblico di allora, l’accuratezza di un tale prodotto - che all’epoca veniva ancora definito come ‘sceneggiato’ - provocò una breccia dirompente e indelebile, in modo assolutamente trasversale: giovani e anziani, uomini e donne, tutti si appassionarono alle esotiche avventure della Tigre della Malesia e rimasero incollati al teleschermo senza perderne una puntata. Per non parlare dei bambini: dopo il secondo episodio ogni maschietto sognava di essere Sandokan e ogni femminuccia immaginava di rivestire i panni di Lady Marianna. Fra i più grandicelli, torme di ragazzine iniziarono a sospirare per il fisico atletico e gli ammalianti occhi dell’attore protagonista mentre, in un Paese dove Raffaella Carrà aveva da poco sdoganato l’ombelico in tv, l’apparizione dell’attrice principale in un costume malese che ne suggeriva la sensualità e ne sottolineava la bellezza rappresentò il primo sogno proibito per altrettanti ragazzini.
Neppure i produttori si aspettavano il successo che seguì fin dalla prima puntata, andata in onda il 6 gennaio e proseguita nel corso di sei episodi sino all’8 febbraio successivo. Eppure, col senno del poi, bisogna dire che gli ingredienti c’erano tutti: anzitutto, una profusione di splendide località esotiche, valorizzate dall’ottima fotografia di Marcello Masciocchi; poi i meravigliosi costumi vittoriani e le insolite mise orientali di Vittorio Nino Novarese, all’epoca già due volte premio Oscar per Cleopatra e Cromwell; infine, sempre a opera di Novarese, l’accurata e opulenta scenografia degli interni britannici, cui faceva da contrasto la rigorosa semplicità di quelli malesi.
A ciò si aggiunga un cast di comprimari di gran rispetto, con un robusto retroterra teatrale alle spalle, diversissimi dai numerosi volti famosi odierni che si improvvisano attori spesso senza alcun training alle spalle: Adolfo Celi, il cui volto naturalmente arcigno era perfetto per la parte del 'cattivo' James Brooke e la cui professionalità riuscì a regalare al personaggio il giusto grado di conflitto interiore; Andrea Giordana, forse un po’ ingessato proprio in virtù dell’enorme divario che correva allora fra l’approccio teatrale alla recitazione e quello televisivo, ma perfetto per rappresentare la rigidità anche mentale, oltre che di modi, del colonnello William Fitzgerald; Philippe Leroy, indimenticabile nella sua scanzonata performance di Yanez De Gomera e, infine, Milla Sannoner, italianissima a dispetto dell’esotico nome e adattissima per il ruolo della posata, filosofica Lucy Mallory.
E poi ci furono loro, perfetti nel physique du role della Tigre della Malesia e della Perla di Labuan: l’indiano Kabir Bedi e la francese Carole Andrè. Due giovani e bellissimi sconosciuti che di lì a poco sarebbero stati proiettati nel firmamento delle star dell’epoca.
Prima di allora, Bedi aveva iniziato per hobby la carriera cinematografica nell’industria indiana di Bollywood e, successivamente, finì sugli schermi di altri due continenti, l’Europa e l’America. Qui rivestì ruoli romantici o ruoli di antagonista in produzioni cine e tv più o meno importanti, non riuscendo mai a scrollarsi tuttavia di dosso il fantasma del pirata della Malesia. Ai giorni nostri si dedica anche alla regia e alla produzione.
La André, figlia dell’attrice Gaby André, aveva iniziato a recitare sin da adolescente, ma non conobbe la notorietà fino a quando diventò Lady Marianna Guillonk. Lavorò poi nel cinema e nella tv sino alla fine degli anni ’80, ma anche lei non riuscì mai a liberarsi dello spettro salgariano e la sua carriera non decollò mai veramente. Oggi, abbandonata la recitazione, è un architetto che condivide uno Studio romano con altri due soci.
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