- Vaff.... – trancio d’istinto l’imprecazione, mentre l'album di vecchie fotografie, che mi è sfuggito di mano, rovina sul pavimento rovesciandone una parte di ricordi. Di là, nella sua cameretta, mio figlio è in compagnia della sua infanzia. Mi auguro che non abbia fatto caso alla mezza parolaccia. C'è già la TV che non lesina volgarità superflue, non devo metterci del mio. E poi, francamente, non voglio attirare ora la sua attenzione, altrimenti mi frego la possibilità di completare il repulisti del mobile prima che si ricordi del padre, suo compagno di giochi.
Nonostante la fretta, però, mi ritrovo a soffermarmi su quelle immagini remote. Pretese poetiche di un fotografo alle prime armi.
La prima che raccolgo è un grandangolo: un banco di nebbia, sfilacciato ai bordi, proteso lungo l’ampia vallata. Come una mano soffice e biancastra che sfiora l‘altopiano, accarezzando amorevole la ruvidità carsica.
Altro scatto. Un fosco manto, quasi fatato, che sommerge domini temporanei. Una distesa di bigia condensa, in netto contrasto con l'azzurro carico, privo di nubi e umidità, immediatamente sovrastante.
Ancora. Una torre lontana e indefinita che offende l’orizzonte: unica isola in un mare caliginoso, percorso da onde pigre e tetre. So che è tecnologia moderna: un qualche ripetitore, intuisco. Ma preferisco fantasticare. La “torre” svetta fiera, sfida l'azzurra profondità del cielo. Affronta, riflettendone i raggi, un sole irruento, che da lassù sfotte borioso la bassa coltre nebulosa, relegata a strisciare sulla terra, ad opprimere quel lembo qualsiasi di mondo.
Osservo la quarta fotografia sfuggita all’ergastolo del raccoglitore. Riconosco il sobrio campanile della chiesetta, incorniciato tra i rami spogli di un albero secolare in primo piano. L'immagine è accesa dai raggi irradiati dal tardo mattino.
Altro soggetto. Il ritratto di una ragazza.
- Vuoi farmi una foto? - Eccola, la sua voce improvvisa e salvatrice che torna, superando le barriere del tempo. Un suono registrato per sempre, ad alta fedeltà, nell'animo. Un'eco che squarcia il velo di un passato relegato in soffitta.
E' inconcepibile come nel letargo della memoria possano affondare anche i momenti più cruciali delle nostre esistenze. Come quell'incredibile giornata di tanti, tanti, anni fa...
* * *
Fotografare. Chi me l’ha fatta fare? Mi chiedevo.
Era novembre, era domenica, e faceva un freddo boia. Giù, in città, la bora aveva rinnegato Trieste, abbandonandola a un’insolita cappa nebbiosa. Che accidenti mi aveva spinto lassù, a Monrupino, due passi dal confine, in quel Santuario consacrato alla Madonna, fin dal primo mattino, affrontando strade sepolte nella bruma, io che oltretutto avevo una fifa bestia a guidare col maltempo?
A fare foto, poi... E tutto solo.
Solo. Ecco la risposta. Una perversa forma di Solitudine. La quale, si sa, è uno dei catalizzatori di punta nei processi autodistruttivi.
Angoscia, noia, sofferenza, paura... Ogni reazione, ogni trasformazione nel ribollente maëlstrom della pazzia, ogni collerica esplosione di rabbia, ogni perdita d'energia, ogni morso d’ansia, ogni baratro di depressione: tutto può trovare se non soluzione almeno sollievo nella parola d’un amico, o in un bacio, candido o ardente che sia, purché vero, o in un’inattesa vittoria.
Beh, io, ben lungi dal rifuggire i percorsi tortuosi e le difficoltà, seguendo un cocciuto istinto avevo finito con scontrarmi con me stesso (ne convengo: è rito di passaggio che accomuna ogni giovane che sa porsi domande) su un campo di battaglia dannatamente avverso. Avevo appunto scelto le lande aride, melanconiche e desertiche, della Solitudine.
Pur fugace, fu davvero uno dei periodi più brutti di quel segmento d’esistenza. Siccome poi seguiva uno dei migliori, mi aveva colto tanto più impreparato, indifeso. L’equilibrio. Mi mancava l’equilibrio. Credo si trattasse di questo. Credo... Non so, ora tutto è cambiato. I miei sentimenti e i miei pensieri di allora sono molto lontani, nel tempo e nell'animo. Non che abbia raggiunto l’agognata armonia. Sarebbe fuori carattere.
In realtà, con l’esasperato trasporto di un ventenne dall’improbabile cuore wertheriano, ritengo mi fossi convinto di patire soprattutto l’assenza di una compagna. Quella che gli altri avevano o avevano avuto. L’Amore che tutti gli amici e amiche (quegli stessi che mi eleggevano confessore e consigliere privilegiato) a fatti o parole avevano conosciuto. O, perlomeno, s’erano illusi d’aver vissuto.
Capace di amare ma non d’accettare compromessi, fuori dal mio tempo e maledettamente conscio d’esserlo, mi trovavo alla ricerca del cosiddetto primo grande amore.
Se state sorridendo, mi sta bene. Lo faccio anch'io. Ora.
Se invece ridete di questa illusione, allora vuol dire che non ricordate più di essere stati giovani.
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