Lei arricciò il naso e strinse le labbra, in una teatrale espressione di fittizia superbia. Nel contempo, però, le sue iridi sprigionarono bagliori divertiti. Due spiritose fossette arcuarono le guance, giusto ai lati della bocca. Questa volta fui lesto di riflessi, e la mia vecchia reflex scattò a cogliere la genuinità dell'attimo.

- Ok, ci sei - concesse lei.

Seguì una pausa che rincorsi a colmare. - Sarà la più bella foto del mio album - affermai, non certo senza sforzo. Il sottoscritto, in tema di adulazione, quand’anche sincera, s’è per sempre fermato alle elementari.

- Sì, può essere... – fece, lasciandomi lo spazio per intervenire. Purtroppo, io non sapevo che cavolo dire, così fu costretta a venirmi in soccorso. Allungò la mano.

- Magda. Piacere di conoscerti.

Il suo palmo trasmetteva una piacevole sensazione di tepore. La sua stretta fu garbata ma decisa. Non altrettanto la mia, temetti. – Felice. Mi chiamo Felice. E non metterti a sghignazzare.

Si limitò a sorridere.

- Ti piace questo posto.

Volli interpretare l'asserzione come una domanda indiretta. Così, risposi: - Oh, sì. Molto.

- Pure a me piace un sacco. In qualche maniera, lo sento mio. In giornate come questa, poi, è incantevole…

- Io ci faccio una capatina ogni tanto - m’inserii, goffo.

- Lo so. Tu non mi hai mai vista. Io invece ti ho notato molte volte. – Molte volte! Il mio cuore batté forte. Un tumulto conosciuto. – Per questo ho voluto conoscerti. Tu ami questo luogo, si vede. Anche se non come l'amo io. Però, in fondo, è lo stesso sentimento. Vedi, abbiamo qualcosa in comune!

- Già. E’ un buon inizio, no? - buttai là, arditamente.

Lei rise ancora, per poi cambiare inaspettatamente espressione, facendosi seria. - Ti ho osservato, prima. Eri piuttosto giù di corda...

Un’osservazione inattesa. Annuii, incapace di mentirle.

- Perché?

In altri momenti, avrei vissuto quella domanda con fastidio, come un’intrusione nella mia intimità. In quel frangente, mi parve un quesito infinitamente naturale. Forse per la dolcezza suadente della sua voce. La conoscevo meno che appena, eppure la cosa non aveva importanza. Avevo bisogno di quello che mi offriva. Il mio pressante bisogno di catarsi si manifestò prepotente attraverso il modesto mezzo delle mie parole. Le raccontai tutto. Le confessai tutto. E mentre lo facevo mi rendevo conto della banalità di certi argomenti. Lei rimase ad ascoltarmi come si ascolta solo l’amico di una vita. Quando i miei occhi s’inumidirono al ricordo, e un primo luccicone mal incatenato scappò lungo la guancia, lei tese una mano e vi passò le dita, ad asciugarlo. A quel contatto, ebbi una sorta di fremito, ma non bloccai il mio racconto, il mio sfogo. Ne avevo troppo bisogno.

Non so quanto tempo passò. So che alla fine mi ritrovai nel suo abbraccio comprensivo.

- Va meglio? - Piano, quasi con apprensione.

Io deglutii. - Sì - risposi, abbassando gli occhi. Provavo vergogna. Vergogna per l’intensità di quello sfogo. Cosa poteva pensare di me, ora?

- Bene.

- Scusami.

- Scusarti? Di che?

- Lascia almeno che ti ringrazi.

Ancora quelle fossette ai lati della bocca. – Beh, un modo ci sarebbe. Avrei un po’ di languorino...

Non disprezzava la mia compagnia, nonostante tutto. Accolsi la notizia con un misto di stupore e gioia. - Giù, in paese, c’è un locale che...

- Sarà perfetto! - m’interruppe, con una strizzatina d’occhio.

Mi porse la piccola mano. Esitante, accettai quel contatto. Mi lasciai condurre verso l’uscita.

Nel passare vicino alla costruzione adiacente alla chiesa, lei si fermò di colpo, esclamando: Voglio ancora una foto! Una richiesta inaspettata. In ogni caso, facile ad esaudirsi. Pentax alla mano, la inquadrai nell’obiettivo.

- Aspetta! Cerco un posto adatto. - Si guardò attorno solo un istante, quindi puntò con decisione una ben determinata direzione. - Qui! Qui mi piace. Una bella figura intera, mi raccomando - fece, e si sedette sullo sperone di roccia sotto la casa, accavallando le gambe e appoggiando il gomito sul ginocchio, il mento abbandonato nel palmo della mano.

Ne scattai un paio. - Fatto.

Lei applaudì e si rialzò. Il suo sguardo cadde apparentemente in modo casuale sulla roccia. Su un punto preciso della medesima.

- Guarda – disse, puntando il dito.

- Che cosa? - chiesi avvicinandomi, convinto che sarebbe stato un nuovo scherzo.

- Guarda – ribadì. - Sembra l’impronta di un piede – affermò, indicando una naturale rientranza nella pietra.

- Già. E’ vero! - confermai a mia volta, più che altro per stare al gioco. Neanche con la più buona volontà ci si poteva indovinare l’impronta di un qualsivoglia piede.

Inaspettatamente, saltellando in equilibrio su una gamba sola, lei si tolse uno stivale.

- Che fai? - chiesi, divertito dal suo naturale modo d’essere e di fare. Forse non ci stava tutta con la testa, pensai, ma la cosa non mi disturbò affatto. Non ritenevo normale nemmeno me stesso.