Prima di tutto, Licia, bentornata su Fantasy Magazine! Allora dicci: chi è Licia Troisi quando non è davanti alla tastiera del pc?
Ciao a tutti! Dunque, sono una quasi dottorata in astronomia, una mamma, una moglie, un’appassionata di fumetti, un’appassionata di cinema e di tanto altro ancora; una persona, insomma, che fa davvero troppe cose!
Quali sono i tuoi scrittori preferiti? E, oltre alle stelle dalle quali trai i nomi dei tuoi personaggi, da cosa prendi ispirazione?
Nel campo del fantasy mi piace moltissimo Jonathan Stroud: è il mio mito, tant’è vero che l’anno scorso ho mandato a Mantova Paolo Barbieri in “missione” per farmi fare un autografo perché io non potevo esserci. Mi piace anche Ursula K. Le Guin e Silvana De Mari, ma, al di fuori del fantasy, il mio libro preferito rimane Il nome della rosa di Umberto Eco, oltre a Dostoevskij, alla Solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, ecc. Insomma, il fantasy è solo una parte di quello che leggo e nemmeno la maggioritaria.
L’ispirazione mi viene un po’ da tutto. Per I regni di Nashira, il primo nucleo è nato da una battuta di Sandrone Dazieri, il quale mi disse: “Immagina come sarebbe un mondo dove al posto delle cascate d’acqua ci fossero le cascate d’aria”, e così l’ho sviluppato. Ma anche dalla mia esperienza: per esempio, Dubhe rappresenta il periodo di incertezza dopo la laurea e Nihal la mia adolescenza. Si tratta di percorsi di consapevolezza che si trasmettono di volta in volta nei miei personaggi.
Spesso gli scrittori esordienti non pensano che scrivere per un grande editore possa comportare anche particolari direttive, tempistiche, vincoli. Insomma, come ti sei organizzata per tutto questo? Come nasce una tua opera e quanto le dedichi di solito?
Sì, ci sono dei vincoli, primo fra tutti quello delle scadenze. In realtà ho scoperto che il 90 % degli scrittori non lo rispetta. Per fortuna l’editore non arriva a casa con la frusta, ma io comunque cerco sempre di finire in tempo, addirittura un paio di giorni prima per stare tranquilla.
In questo periodo, con la tesi di dottorato alle porte, scrivo la sera, due/tre ore al giorno. Cerco di scrivere possibilmente un numero fisso di pagine. Per il resto, non ci sono vincoli particolari e non ho mai avuto delle pressioni da parte della casa editrice riguardo al mio immaginario.
Ancora una domanda sull’aspetto più tecnico del mestiere della scrittura: è capitato che gli scrittori affermati si siano lamentati di un editing troppo invasivo sul proprio testo. Tu che cosa puoi dirci in merito? Quanta importanza attribuisci ai professionisti del settore che stanno “dietro le quinte” (editor, curatori, ufficio stampa, distribuzione, ecc.)?
Sono importantissimi tutti quanti. È vero che il libro lo scrivi quando sei da solo, però portare il prodotto sugli scaffali è un lavoro di gruppo, quindi sono sicura che siano tutte professioni della stessa importanza. La distribuzione è un punto fondamentale. Con questo non voglio dire che un brutto libro se ben distribuito possa vendere milioni di copie, però la distribuzione conta davvero molto, come anche il marketing e l’ufficio stampa.
Per me l’editing è un momento fondamentale del processo creativo. Nel mio caso, mi rendo conto che da un certo punto in poi perdo completamente lo sguardo oggettivo su quello che scrivo, per cui mi risulta impossibile correggere tutto quanto. L’editor è proprio questo: la persona che sa mantenere lo sguardo lucido sul tuo libro e permette di comprenderlo al meglio. L’editing invasivo non mi è mai capitato. Qualche volta, in generale, l’editor applica delle correzioni che si possono non condividere, però se il rapporto è franco e chiaro basta discuterne con tranquillità. Rappresenta un momento di crescita per l’autore. È una dialettica, questa, molto importante secondo me. Se lo scrittore diffida del lavoro dell’editor, c’è proprio un problema di comunicazione ed è forse il caso di cambiare editor o di comunicarlo alla casa editrice.
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