Martedì 13 dicembre 2011 Luis Sepúlveda è approdato a Lucca per presentare il suo nuovo libro: Ultime notizie dal Sud. L'evento è stato organizzato nella chiesa di San Cristoforo dalla libreria Ubik.
Nato come diario di viaggio – seguito ideale dell'acclamato Patagonia Express – il testo è rimasto qualche anno a sedimentare prima di diventare libro. L'intervallo trascorso lo ha trasformato in una testimonianza postuma: ciò che viene raccontato attraverso la penna dell'autore cileno e la macchina fotografica del co-autore e amico Daniel Mordzinski, argentino, non esiste più.
Il perché ce lo spiegherà durante questo incontro lo stesso Sepúlveda – parlando un esotico ma più che comprensibile italo-sudamericano – attraverso una lunga chiacchierata con la traduttrice "storica" dei suoi libri, Ilide Carmignani.
Mentre aspettiamo Sepúlveda, la platea è in fermento, i posti esauriti; gli addetti stampa, il personale dello staff, gli invitati e gli ospiti si muovono elettrizzati qua e là per un accordo finale da concludere, un ultimo particolare da sistemare.
C’è una discreta lotta per le prime file e per posizionarsi con fotocamere, registratori e cineprese. Arriva una signora bruna che si guarda intorno e fa l’atto di sedersi su una poltroncina momentaneamente libera; viene quasi aggredita, finché la sua accompagnatrice ci dice chi è: la moglie di Sepúlveda. Con il dovuto imbarazzo, parte la gara per la cessione del posto.
Dopo qualche attimo arriva un tipo che si siede di schianto accanto a lei, scaricando per terra uno zaino enorme. Carmen Yanez Sepúlveda, forse temendo altre reazioni, lo difende comunicando che è Daniel il fotografo e che ”va via subito, va sul palco per la presentazione”. Mordzinski è simpaticissimo, e tutti gli chiedono l’autografo.
Nessuna pietà invece per l’inviata di Guanda, l’editore, che deve trovarsi un altro posto.
Quando Luis "Lucio" Sepúlveda si mostra al pubblico, viene spontaneo chiedersi quale effetto possa fare a questo autore – volto e sangue indio, viaggiatore delle sconfinate terre australi dove l’arrivo del filo spinato ha rappresentato la fine di un modo di vivere – trovarsi in una città medievale come Lucca, incastellata, umida, buia, fatta di spazi chiusi dentro spazi chiusi.
La risposta è semplice e arriva con l’inizio della presentazione: Sepúlveda porta il suo mondo con sé. Una sequenza filmata delle foto del libro sulle note di Oblivion – tango triste di Astor Piazzolla, e l’atmosfera cambia di colpo. Non siamo più nella chiesa medievale ma nel sud del mondo, in Patagonia, nella Terra del Fuoco.
Luis Sepúlveda tocca molti temi. L’idea di questo viaggio e di questo libro, il suo significato di testimonianza aprono lo scenario su un mondo alla fine del mondo, reale ma pieno d’incanto, che appartiene ormai al passato:
“Volevamo dare una visuale di più ampio respiro sulla Patagonia e la Terra del Fuoco tramite la sintesi della nostra esperienza di scrittore e fotografo ma il tempo, i cambiamenti dell’economia e l’avidità dei vincitori le hanno trasformate”.
La cosa incredibile degli autori sudamericani è come sappiano raccontare la realtà dell’immaginazione, rendendo magica qualsiasi storia.
Attraverso le parole dell’autore appaiono paesaggi con i fiori rossi della Quila andina, “tragico e infallibile oracolo” che sboccia sempre prima di grandi disgrazie, o “paesi alla Tolkien” come El Bolsòn, dove è possibile incontrare Coquito, un omino dagli occhi azzurri tutto vestito di rosso che afferma di essere un folletto esiliato in quella città per amore di una bella ragazza. Oppure, la splendida, vecchissima Donna Delia, la signora dei miracoli, che vive sola con le sue pecore e le sue piante, capace di far fiorire un bocciolo secco accarezzandolo con le mani.
Emergono figure stranianti come il liutaio Tano (soprannome dato a quegli emigranti italiani costretti a lavorare nelle zone più povere) scappato dalle epurazioni di Buenos Aires, che vaga per la Patagonia come un novello incantatore in cerca del legno giusto per costruire i suoi strumenti.
Personaggi del presente, come il vecchio ferroviere che per qualche ora riporta il mitico Patagonia Express alla sua dignità originaria, o del passato, come lo sceriffo Martin Sheffields, il Kid, Butch Cassidy, Etta Place; magari un vecchio ubriaco che afferma di essere tris nipote di quel Davy Crockett morto a El Alamo, il cui figlio John sterminò assieme alla moglie chiunque si trovasse fra loro e le miniere d’oro.
Del resto, il sud del mondo è una terra estrema adatta a personaggi estremi, luogo di fuga e di esilio dove il passato non interessa e tutto può ricominciare.
Questa serie di racconti corali così intimamente legati formano un romanzo capace di trascinarti con sé come un fiume in piena, e sono inquadrati in una ricostruzione storica accurata che parla anche di colonizzazione inglese e tedesca, di nazismo e di attentati alla comunità ebraica.
“Per noi scrittori latino-americani, la parola Storia è intimamente collegata alla parola Memoria” dice Sepúlveda “perché abbiamo assunto un ruolo involontario: vogliamo in qualche modo allontanarci dalla realtà ma siamo figli di un’epoca terribile, soprattutto nella mia nazione dove alcuni periodi sono stati sistematicamente cancellati o ignorati dai libri di storia, quindi abbiamo finito per diventare la memoria viva della nostra società.
La mentalità della gente del sud era caratterizzata dall’orgoglio di essere capaci di sopravvivere in un ambiente duro e ostile. Con le privatizzazioni è arrivato un qualcosa che non si conosceva in Patagonia, dove l’unico limite possibile era il cielo e la terra. La grandezza della Patagonia era lo spazio aperto, libero. Hanno portato invece il senso della proprietà privata e il suo simbolo, che si chiama filo spinato, e questo ha interrotto violentemente la cultura, il fenomeno migratorio costante degli uomini e delle specie animali autoctone, generando un senso odioso: io, abitante naturale, sono diventato un estraneo nella mia stessa terra”.
Interessante è il rapporto e l’interscambio fra le foto (tutte in bianco e nero) e il testo del libro:
“La fotografia” dice ancora Sepúlveda “non è un extra che accompagna un testo, e il testo non ne è la giustificazione. La fotografia è la sesta vocale del linguaggio e richiede tre elementi: luce, ombra e rispetto. Si diceva che una fotografia rubasse una parte dell’anima: le foto di Daniel restituiscono qualcosa della tua anima che credevi perduto”.
È
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