Appena sveglia la mia mente è una stanza vuota. In qualsiasi luogo abbia camminato in sogno, qualsiasi ricordo io abbia rivissuto, non ne rimane traccia. È se una porta si fosse chiusa, separando la me stessa di ora da chiunque fossi prima.
Uno scampanare lontano mi fa alzare dal letto di scatto e correre di sotto. Sulla coperta Ash, Apple e Musina rimangono a fare le fusa, acciambellati come tre pagnotte pelose.
La porta della cucina è aperta ma la linea di sale sulla soglia è intatta. La scavalco con un piccolo salto e mi precipito fuori, urtando una rosa reclinata sul sentiero.
La sento dire: - Puttana. - La vocetta è sibilante. - Puttana disattenta. - Rimproverarla sarebbe inutile: diventerebbe più volgare.
All'alba il cielo è blu profondo, il sole assomiglia a un occhio spento. La luna rotola pigra lungo l’orlo delle colline, sfiorando le cime degli alberi.
Oltrepassato il cancello vedo il lattaio risalire gli ultimi metri di strada, il corpo tozzo piegato in avanti a contrastare la raffica improvvisa di vento. Le mucche si urtano e muggiscono. L'anello a cui sono legate vibra nella mano massiccia dell'uomo.
Dopo pochi istanti l'aria torna immobile, il fresco della notte ormai svanito. Il lattaio si asciuga la fronte con un fazzoletto a scacchi macchiato di giallo.
- Pessima giornata. È già la terza volta che rischio di perderle.
Aggancia l'anello al palo di legno, saltella a piedi uniti, afferra uno dei fili e tira verso di sé. L'animale, un esemplare di plastica bianca e nera, scende piano, le mammelle lucide brillano al sole.
Lo spinotto su uno dei capezzoli si apre con un sibilo, il latte schiumoso riempe in fretta il contenitore a lato del cancello. Dopo sette litri la bestia semi sgonfia viene lasciata di nuovo fluttuare verso l'alto, uno sguardo di rimprovero nei larghi occhi marroni.
Il lattaio recupera l'anello, accetta le banconote spiegazzate e fa un cenno di saluto, guardandomi le tette. Poi trotterella via, a continuare il suo giro.
Chiudo con cura il contenitore, avvitando il coperchio di latta fino in fondo. La superficie metallica, ancora umida di rugiada, è piacevolmente fresca a contatto con la pelle.
Mia nonna diceva che ci si abitua a qualsiasi cosa, anche a vivere appesi a un chiodo nella stalla. Eppure, anche dopo tutto questo tempo, sento ancora un sapore di plastica acquattato dentro la nota chiara del latte. Ho dovuto smettere di berlo.
Un rumore di passi mi fa voltare. Victor sta attraversando il cortile, il rastrello appoggiato con indolenza su una spalla. Lo seguono Minù e Meo, gli occhi sgranati, i baffi frementi, un'espressione speranzosa dipinta sul muso.
Guardo il petto muscoloso, a malapena coperto dalla salopette di jeans, le braccia simili a tronchi. Sento gli ormoni frinire come cicale. Lo saluto con un tono che spero sia impassibile.
- Devi andare al mercato. Oggi.
Questo è tipico di Victor: dritto al punto. Un motivo in più per credere che, se avesse voluto scopare, me lo avrebbe detto. Non mi hai mai guardato il seno, nemmeno una volta, e sa Dio se ne ho in abbondanza.
- Non mi dirai che è finito il pesce.
- No, ma canta.
Rimpiango il tempo in cui il pesce andato a male si limitava a puzzare..
- Inizia a dargli il latte, le ciotole stanno sul lavello. Tornerò appena possibile.
Risalgo in camera passando dall'ingresso principale, giusto per evitare altre scene spiacevoli con il cespuglio di rosa.
Faccio la doccia poi metto il deodorante, spruzzo un po' di profumo ai lati del collo, infine raccolgo i capelli in una crocchia e li fermo con uno spillone d'osso. Indosso un vestito corto, verde chiaro, e un paio di sandali con un poco di tacco.
Una volta pronta indosso uno paio di spessi guanti da motociclista e mi accosto al letto. Nel ripiegare la zanzariera trovo tre folletti, le manine paffute incollate alla rete, la bocca sbavante. Pigolano quando li stacco ma ho imparato a non farmi intenerire.
Sento i loro dentini aguzzi premere attraverso la stoffa dei guanti, tentando di raggiungere la carne.
Entro nel bagno a passo di marcia, li scaravento nel cesso, ci verso mezzo litro di acido, chiudo il coperchio e mi ci siedo sopra. Li ascolto battere e gemere. La loro voce sottile si affievolisce per qualche istante poi si alza di nuovo di volume. Gridano, un verso stridulo simile a quello dei pipistrelli. Segue un gorgoglio seguito da uno sfrigolare schiumoso e infine il silenzio.
La prima volta ho pianto. Ora non provo niente, solo non un vago fastidio al pensiero di dover raschiare via i rimasugli con lo scopettino. Nell'abituarsi a tutto si cambia anche senza volere. Nonna, cosa diresti se tu potessi vedermi ora?
In cortile Victor ha tirato fuori la macchina dalla rimessa, un vecchio pick-up sgangherato con il pianale coperto di segatura. Giro la chiave e il motore si avvia con uno scoppio per poi rombare piano, un suono simile al ronzio delle api tra le calendule.
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