Secondo una oscura profezia Maya, il mondo finirà il 21 Dicembre del 2012.
Contro questa minaccia incombente, Hollywood (e non solo) schiera i suoi pezzi da novanta programmando nelle sale una pioggia di film sui supereroi: i ”Comic movie” sono stati sufficientemente sdoganati e dopo The Avengers apprezzati universalmente affermandosi con una propria dignità artistica al di là di ogni preconcetto.
Poi ci sono i film come Chronicle, che segue una strada tutta sua nel piccolo mondo degli “eroi contro”, quelli che vogliono fare il verso ai blockbuster cercando una sorta di autorialità nonostante il genere di pertinenza sia chiaramente quello fantastico.
Questo tipo di prodotti “critici” possiede delle caratteristiche ben precise che rassicurano lo spettatore intellettuale di non stare per assistere all’ennesimo, banale e irreale Batman, bensì ad una pellicola che dipinge realmente le possibili reazioni di “normali” teenager alle prese con i superpoteri.
Oltre a questo, per non sprecare soldi, il prodotto deve essere dichiaratamente low budget e deve descrivere situazioni il più verosimili possibili in un mondo dove nessuno conosce i supereroi e non esistono (o almeno non vengono MAI menzionati) i comic book diffusi in tutti i drugstore USA.
Con queste premesse di “genere” bene in mente, osserviamo Chronicle, produzione anglo-americana per la regia di Josh Trank, con occhio critico e profondo rammarico.
Sin dalle prime inquadrature, ci accorgiamo dell’innovazione filmica insita nel punto di vista della narrazione: un mockumentary in stile The River e The Blair Witch Project, tecnica abusata anche dalle grandi produzioni, come Cloverfiled, con esiti non certo da ricordare nei libri di storia (del cinema ovviamente).
Se questo dettaglio non basta a rende “realistico” il prodotto, possiamo contare su una trama forte e compatta come un groviera, che parte con una debole giustificazione del punto di vista filmico (il protagonista decide improvvisamente e senza ragione di comprare una telecamera per registrare la sua vita), derivante dal desiderio di connotare come disadattato il giovane Andrew, ragazzo problematico con madre in punto di morte e padre alcolizzato quanto violento.
Insieme al protagonista, tartassato dai bulli ed in conflitto con il mondo che lo emargina, incontriamo suo cugino Matt, bello, spigliato e socievole studioso di filosofia che analizza con Andrew (annoiato dalla cosa: essendo disadattato non può essere colto e travisa le parole dell’amico) i problemi esistenziali posti da Kant e Nietzsche.
Oltre questi personaggi presi a piene mani dalla provincia americana, troviamo povero Steve: ragazzo di colore e star (ovviamente sportiva) della scuola, che chiude il terzetto di punta di una pellicola attrezzatissima per la fiera delle banalità che parte dal 12° minuto.
Ad una comune festa studentesca (la prima della vita per l’emarginato Andrew) incontriamo la bella di turno, la bionda blogger Casey (anche lei armata di telecamera per riempire il suo spazio in rete), che stringe amicizia con il bel Matt prima che i tre ragazzi (ai due si aggiunge Steve, povero lui) si allontanino per scoprire una caverna nel bosco con dentro un misterioso macchinario sconosciuto (alieno?), destinato a sparire misteriosamente finendo nelle mani dell’esercito (che dopo averli beccati al centro del sito, li manda via solo con una ramanzina).
Da questo punto, un film che nei dettami dei suoi creatori (tra cui lo sceneggiatore Max Landis, figlio del celebre John) vorrebbe omaggiare Akira, diviene un susseguirsi di “realistiche” banalità degne di chi un fumetto nella sua vita non lo ha mai aperto.
Il potere corrompe, il potere da alla testa e ovviamente Andrew è il soggetto perfetto, la sua condizione sociale (degne dei cattivi di serie Z dell’Uomo Ragno negli anni '50) lo rende un individuo a rischio di delirio onnipotente (cosa che ovviamente, a differenza degli altri due amici, lui è davvero) ed ovviamente, da DNA, un pericoloso supercriminale contrapposto al buon Matt, gentile, colto, bravo e generoso ed al povero Steve, che essendo l’unico ragazzo di colore, fa la fine di tutti i neri dei film anni 50/70.
Sorvolando sulla ricerca in Wikipedia della telecinesi e dei suoi impieghi, sorvolando sulle scene di distruzione immane (chissà perché, visto il costo, girate con telecamere a bassa risoluzione), sorvolando sui buchi di sceneggiatura grandi come l’Atlantico; arriviamo alla fine del film con una conclusione banale, spacciata dai promotori come intuizione geniale ma talmente vecchia da essere stata abbandonata (dagli scrittori di fumetti) intorno agli anni ottanta quando i cattivi tout court sono passati di moda in favore delle trimensionalità degli antagonisti.
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID