Per convenienza, il Gotico si rifiuta di morire. L’armamentario di gran parte della narrativa horror contemporanea – le tempeste, i cimiteri, gli scheletri e i vampiri – potrebbe direttamente uscire dal Diciottesimo secolo di un romanzo a sensazione della Minerva Press, o da Il castello d’Otranto. Naturalmente, l’horror non è per nulla così semplice, né mai si è ridotto a quei soli ammennicoli. Ma la loro tenace persistenza è bastata agli studiosi per costruire intere teorie sull’orrore come genere irriducibilmente nostalgico, e ad alcuni fra i lettori di mentalità più aperta per considerarlo in sé come una cosa gretta. Ecco perché leggere le storie di Stefan Grabiński, queste scritte fra il 1918 e il 1922, è un’esperienza così rivelatrice. Poiché ci troviamo di fronte a uno scrittore per il quale l’orrore soprannaturale si manifesta proprio nella modernità – nell’elettricità, nelle caserme dei pompieri, nei treni: il perturbante quale cattiva coscienza dell’oggi.
Ricercando la narrativa fantastica polacca, tra i lettori di lingua inglese i più si affidano, come me, alle traduzioni. E per quanto di dubbia utilità, si fanno inevitabili i confronti. A giudicare dal Dedalus Book of Polish Fantasy, Grabiński è sui generis. Nonostante il plauso della critica d’avanguardia nel corso della vita, il suo radicalismo non era altrettanto radicato nelle forme del proprio scrivere come quello, per esempio, del futurista Bruno Jasieński. Tra i suoi successori, Grabiński non possedeva l’onirica malinconia di Bruno Schulz, né il riflessivo utopismo del suo ammiratore Stanisław Lem.
Grabiński è conosciuto a volte come “il Poe polacco”, il che però è fuorviante. Laddove l’orrore di Poe si rende agonizzante, come una sorta di grido prolungato, quello di Grabiński resta cerebrale, investigativo. I suoi protagonisti sono tormentati e atterriti, ma non perché subiscano il capriccio di déi lovecraftiani ciechi e idioti: l’universo di Grabiński è strano e i suoi princìpi non sono forse quelli che ci aspetteremmo, ma nondimeno sono dei princìpi – delle ordinate regole – ed è nella loro esplorazione che si trova il mistero. Si tratta di un orrore rigoroso. Studente di filosofia, Grabiński prende Bergson, James, Maeterlinck, ed estrapola da essi, talvolta in un loro fecondo incrocio con la scienza di Newton e di Einstein, per creare storie fantastiche di un’eretica intelligenza. E di uno stile intenso. Grabiński ha diversi tic stilistici, e l’unico stridente in qualche caso è la sua predilezione a concludere i paragrafi in ellissi…
I suoi meccanismi sono densi di significato. Macchinari per regolare il tempo e per accelerarlo, portano liberazione e mettono in pericolo. L’immagine di un treno lanciato nella corsa è ricorrente, con la paura a scaturire meno dall’ovvio pericolo fisico che non dallo psichico orrore di un ordine del tempo andato a rotoli. In una delle sue migliori storie, un “treno folle” fuori dalle regole, “senza permesso né sanzione”, vaga incontrollato sul percorso dei binari terrorizzando la rete ferroviaria, disgiungendo la quotidianità dal tempo stesso.
I treni sono anche simboli fallici notoriamente evidenti, e in racconti come Nello scompartimento Grabiński è appropriatamente esplicito nei riguardi della sessualità del viaggio in treno. Ma né qui né altrove utilizza la corsa ferroviaria (o qualunque altra cosa) come metafora sessuale. L’autore è straordinariamente franco a proposito del sesso e della sua fisicità, senza essere moralista.
Grabiński ci mostra tutta la nostra condiscendenza nei confronti del passato. Le sue tematiche ci stupiscono nell’essere così contemporanee, d’orientamento tanto attuale. Fluide identità di genere, lo scombussolamento del soggetto, il tempo schizofrenico – ogni sorta di preoccupazione deleuziana e di ricerca di tipo mediatico – è apertamente esposta, con sconvolgente precisione, oltre ottant’anni fa in un villaggio nei pressi di Leopoli. Di fatto la sua più celebrata storia, “L’area”, quasi appare scontata in quello che dei teorici d’accatto definirebbero come il “postmodernismo” dei suoi temi. È un’opera stupefacente, eppure il suo finale – la rivelazione che le arcane fantasie dello scrittore protagonista si sono incarnate, ostilmente vampiriche – è stato usato così tante volte dal tempo di Grabiński da suonare, ormai, un po’ come un motivo risaputo. Ciò che sostiene la forza del racconto, tuttavia, è il modo in cui tale nozione si coagula in una particolare casa, su cui lo scrittore si concentra con tale precisione da renderla reale.
Da nessun’altra parte questa comune materialità viene resa più brillantemente estranea che nel racconto “Lo sguardo”, una tragedia quotidiana che precipita il suo protagonista in una spirale non già d’illusioni quanto, al contrario, di visione all’eccesso accurata. Nei suoi dialoghi unilaterali con cose che non potrebbe sopportare di vedere, nel suo terrore di guardarsi indietro, l’ambiente assolutamente ordinario in cui si trova viene investito di patologica minaccia.
Per uno scrittore spesso indicato come il più classico praticante del fantastico letterario di lingua polacca, Grabiński è scandalosamente poco tradotto. Alla sua morte, nel 1936, aveva pubblicato diverse raccolte di racconti, tre lavori teatrali e quattro romanzi, eppure The Dark Domain è il solo suo volume ora in inglese, e non è nemmeno tanto lungo. Noi, cultori del Weird, ne richiediamo l’opera completa in traduzione. Per favore.
“Trainspotting”, apparso in The Guardian, sabato 8 febbraio 2003, e pubblicato in Italiano nel volume Il villaggio Nero. Racconti Fantastici (Edizioni Hypnos). Per gentile concessione dell'editore.
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