Silverthorn, decima fatica dei Kamelot, è l’album che ha visto il cambio di cantante, passando dallo storico Roy Khan alla novità Tommy Karevik, proveniente dai Seventh Wonder; una scelta fatta cercando di mantenere una continuità con il passato sia come presenza scenica, sia come timbro vocale. Il primo difetto di questa realizzazione musicale più che discreta sta proprio in questo: fare di Karevik una copia di Khan. Un confronto dal quale il giovane cantante non ne esce vincitore, sia come capacità, sia come esperienza. Una buona voce, su questo non ci sono dubbi, ma che deve avere il suo stile per esprimersi nel suo pieno valore e quella di ripercorrere la via di chi l’ha preceduto è una scelta sbagliata che fa gli perdere punti, facendolo essere solo l’ombra di chi non c’è più per tutta la durata dell’album.
L’inizio promette bene. Dopo l’apertura di Manus Dei che costruisce un’atmosfera cupa, fredda, malinconica, da tragedia (stile Il Mistero di Sleepy Hollow di Tim Burton, per rendere l’idea), si attacca con un brano veloce e incalzante come Sacrimony (Angel Of Afterlife): una canzone cattiva, arrabbiata, dove Karevik ben duetta con le voci femminili di Elize Ryd (Amaranthe) e Alyssa White-Gluz (The Agonist). Quattro minuti di musica potente che fanno presagire un crescendo d’intensità, un ritorno delle atmosfere e dei fasti di Karma ed Epica.
Il presagio però non trova i riscontri che ci si aspetterebbe dopo un pezzo del genere. Non è responsabilità solo dell’interpretazione forzata di Karevik (che s’è ritrovato a dover colmare un grande vuoto, avendo caratteristiche non adatte per riproporre il timbro caldo ed espressivo di Khan) che l’album non convince appieno come ci si sarebbe atteso da una band d’esperienza e maturità come i Kamelot: sono le canzoni, le loro sonorità a non dare quella scossa che ci si sarebbe aspettata. Tecnicamente sono ben realizzate, la prova dei membri della band è buona (bene Sean Tibbets, Casey Grillo, Oliver Palotai, con la chitarra di Thomas Youngblood che si fa sentire in modo chiaro e potente) la cura dedicata al suono è ottima (ed è quasi naturale quando si ha a che fare con Sascha Paeth e Miro), ma si ha l’impressione che manchi quel pizzico d’amalgama giusta per rendere il ritmo ben orchestrato, impedendogli di far presa sull’ascoltatore: ci sono brani come Ashes To Ashes e Falling Like The Fahrenheit che finito l’ascolto non hanno lasciato traccia, si fa fatica a ricordare un ritornello, uno stacco che continui a suonare nella mente dopo che il cd ha smesso di girare.
Torn, Veritas, Silverthorn, My Confession, sono brani ascoltabili, ma privi di quel mordente, di quel guizzo capace di farli divenire canzoni che rimangono impresse. Cosa che invece fa Solitaire, brano diverse spanne sopra le precedenti, eseguito con potenza e velocità, capace di creare un sound trascinante ed evocativo.
Song For Jolee, Prodigal Son e Continuum sono sotto la media del disco, aggiungendo poco al valore dell’album.
Il filo conduttore che guida l’album, interessante e anche di un certo fascino se piacciono i toni cupi, non sortisce nell’immediato l’impatto come fatto in passato, occorrono diversi ascolti: la storia della giovane che muore tra le braccia dei fratelli rivelando un tremendo segreto non raggiunge i toni drammatici, epici di quella storia che è stata l’anima di Epica. Tuttavia le atmosfere che il gruppo è riuscito a creare attorno alla trama rendono bene i sentimenti tristi, malinconici, disperati di un rapporto tragico.
Fare un paragone con quelli che sono stati i cavalli di battaglia della band statunitense non è giusto, data l’evoluzione avuta negli anni: basti pensare all’album precedente, Poetry for the Poisoned, più orchestrale e reso più espressivo e coinvolgente rispetto ai primi grazie alle tonalità e all’interpretazione di Roy Khan. Silverthorn è un’altra storia, bisogna tenere bene a mente questo: al primo ascolto può lasciare freddi visto lo stacco che c’è con il suo predecessore, proprio come gli occhi della ragazza presente sulla sua copertina, fantasma di un passato lasciato alle spalle. Ed è questo che la band deve fare: ricordare, ma non cercare di perpetrare ciò che è stato, e intraprendere con coraggio la strada che già si è intravista in quanto di buono è stato fatto nell’album. Una band con una consolidata carriera ventennale che si è fatta un nome nel panorama del metal, ha le potenzialità per affrontare un’avventura del genere.
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