Silverthorn, decima fatica dei Kamelot, è l’album che ha visto il cambio di cantante, passando dallo storico Roy Khan alla novità Tommy Karevik, proveniente dai Seventh Wonder; una scelta fatta cercando di mantenere una continuità con il passato sia come presenza scenica, sia come timbro vocale. Il primo difetto di questa realizzazione musicale più che discreta sta proprio in questo: fare di Karevik una copia di Khan. Un confronto dal quale il giovane cantante non ne esce vincitore, sia come capacità, sia come esperienza. Una buona voce, su questo non ci sono dubbi, ma che deve avere il suo stile per esprimersi nel suo pieno valore e quella di ripercorrere la via di chi l’ha preceduto è una scelta sbagliata che fa gli perdere punti, facendolo essere solo l’ombra di chi non c’è più per tutta la durata dell’album.
L’inizio promette bene. Dopo l’apertura di Manus Dei che costruisce un’atmosfera cupa, fredda, malinconica, da tragedia (stile Il Mistero di SleepyHollow di Tim Burton, per rendere l’idea), si attacca con un brano veloce e incalzante come Sacrimony (Angel Of Afterlife): una canzone cattiva, arrabbiata, dove Karevik ben duetta con le voci femminili di Elize Ryd(Amaranthe) e Alyssa White-Gluz (The Agonist). Quattro minuti di musica potente che fanno presagire un crescendo d’intensità, un ritorno delle atmosfere e dei fasti di Karma ed Epica.
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