Essa si trovava direttamente in linea con la porta principale, il che mi permetteva di guardare lungo il corridoio e attraverso il salotto, che occupa la parte anteriore della casa, per accertarmi che il chiavistello fosse tirato.
Naturalmente, era tirato, perché non sono tipo da trascurare le misure di sicurezza.
Nell’uscire chiusi a chiave la porta posteriore e usai una seconda chiave per azionare il chiavistello dall’esterno, poi spinsi la chiave in fondo alla tasca davanti, da cui non poteva assolutamente cadere e mi soffermai per un minuto sul minuscolo posteriore, inspirando il vago profumo delle foglie novelle spuntate sulle rose rampicanti, ormai arrivate a metà del traliccio che avevo costruito per rendere più grazioso il portico.
Naturalmente, quel traliccio m’impediva anche di vedere chiunque si stesse avvicinando, ma non appena le prime rose si fossero schiuse, nel giro di un mese, non avrei più rimpianto la cosa.
Adoro le rose da quando ero bambina e vivevamo in una casa con un grande appezzamento di terreno, in una piccola cittadina, con le rose che riempivano tutta la parte posteriore del giardino.
Quel giardino della mia infanzia era almeno cinque volte più grande del mio, che si estendeva per meno di sei metri prima d’interrompersi a ridosso dell’erto terrapieno della ferrovia. Il pendio di quel terrapieno era coperto di erbacce, ma di tanto in tanto una squadra di manutenzione passava di qui per mantenerle sotto controllo. Sulla mia sinistra, guardando verso la ferrovia, era visibile l’alta recinzione di legno che circondava l’edificio degli Shakespeare Garden Apartments e ne tutelava la privacy. La recinzione era leggermente a monte rispetto alla mia casa; alla mia destra, a valle, c’era l’altrettanto piccolo giardino posteriore dell’unica altra casa presente sulla strada. Essa è quasi identica alla mia e appartiene a un ragioniere, Carlton Cockroft.
Le luci in casa di Carlton erano spente, cosa tutt’altro che sorprendente a quell’ora della notte. Le uniche luci che potevo scorgere in tutto il condominio erano quelle della casa di Deedra Dean. Mentre guardavo in quella direzione, anche la sua finestra si oscurò.
Era l’una del mattino.
Lasciai in silenzio il piccolo portico, con le scarpe da passeggio che quasi non facevano rumore sull’erba, e cominciai a vagare per le strade di Shakespeare, invisibile nella notte così immota e buia… niente vento, appena una falce di luna nel freddo dello spazio… che quasi io stessa non riuscivo a vedermi. La cosa mi piaceva.
Un’ora e mezza più tardi, mi sentii abbastanza stanca da riuscire a dormire.
Stavo tornando a casa, e non stavo più cercando di nascondermi alla vista, anzi, mi ero fatta disattenta nel percorrere il marciapiede che costeggia l’arboreto (un nome esotico per un parco trasandato in cui alcuni alberi e cespugli recano una targhetta che ne identifica la specie). L’Arboreto Estes occupa un isolato di terreno edificabile… decisamente di seconda scelta… di Shakespeare. Ciascuna delle quattro strade che costeggiano il parco ha un nome diverso e la mia, Track Street, su lato orientale, è lunga appena un isolato. Di conseguenza, c’è ben poco traffico, e ogni mattina io posso guardare dalla finestra anteriore e vedere dall’altra parte della strada un po’ di alberi, invece del garage di qualcun altro.
Svoltai l’angolo provenendo dal lato meridionale dell’arboreto, Latham Street, per immettermi sulla Track; adesso ero di fronte a piccoli appezzamenti di terreno incolto che nessuno reclamava, appena a sud della casa di Carlton Cockroft. Non fui tanto disattenta da indugiare sotto la debole luce del lampione all’angolo. Ce n’è uno soltanto a ogni angolo dell’arboreto, perché il budget cittadino non permette di installare lampioni nel centro dell’isolato, soprattutto in questa parte così sperduta della città.
Non avevo visto anima viva per tutta la notte, ma all’improvviso mi resi conto di non essere sola. Qualcuno si stava muovendo nel buio, dall’altra parte della strada.
Istintivamente, mi nascosi dietro una quercia al limitare del parco; i suoi rami si sporgevano a sovrastare il marciapiede, e forse la loro ombra mi aveva nascosta alla vista della presenza dall’altro lato della strada. Il cuore mi martellava nel petto con una velocità sgradevole.
Sei proprio una dura, mi schernii. Cosa penserebbe Marshall, se ti vedesse adesso?
Quando ebbi un secondo di tempo per calmarmi, però, giunsi alla conclusione che Marshall avrebbe pensato che stavo dimostrando buon senso.
Sbirciai con cautela oltre il tronco della quercia. L’oscurità era quasi totale nel centro dell’isolato, dove si trovava l’altra persona, e non ero neppure in grado di dire se quello che vedevo era un uomo o una donna. Mi riaffiorò nella mente, fugace quanto spiacevole, il ricordo della mia bisnonna che diceva: “Più nero di un negro in una miniera di carbone e con la bocca chiusa”, mettendo involontariamente in imbarazzo tutta la famiglia. O forse non così involontariamente. Forse quel suo piccolo cenno di soddisfazione non era stato per una frase ben congegnata ma per le occhiate d’imbarazzo che aveva visto scambiare dai miei genitori.
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