– Non avere paura. È come attraversare il tessuto del mondo.
La ragazzina mise allora una mano avanti e sfiorò la roccia: era calda, pulsante e solida. Biogranito: una superficie vivente. Così lucida che Belaren poteva vedervi il proprio riflesso. E questi le sorrise. Spaventata, sobbalzò e arretrò.
– Belaren, non fare la bambina.
La piccola sospirò e posò ancora la mano sulla parete. Poi affondò, proprio come in uno specchio d’acqua, senza alcuna resistenza. Chiuse gli occhi e si lasciò andare alla sensazione che la avvolse, circondandola e sfiorandola sinuosa, simile a un velo. Quando li riaprì era già dall’altra parte; ma un nodo le strinse la gola alla vista del baratro che le si spalancava adesso davanti: un abisso oscuro che precipitava fino al centro del mondo. Un forte calore risaliva attraverso di esso, innescando la base del tronco dell’Albero della vita. Proprio come il respiro di un demone: il respiro del mondo. L’aria stessa pareva pulsare, come sangue nelle vene.
L’Architettura era viva.
Sussultò ancora e sua madre le cinse le spalle per infonderle sicurezza.
– L’Architettura non ti lascerà cadere – la tranquillizzò, ma a Belaren non bastava: il cuore prese a batterle con violenza, come se volesse fuggire dal petto. Anche Jehinn le posò una mano sulla spalla e le palpitazioni di colpo scomparvero: Belaren volse lo sguardo, stupefatta, verso l’Eterea e sentì che quella creatura le sorrideva nonostante sul suo volto non vi fosse alcuna traccia di emozione. Solo dopo capì: i sentimenti di Jehinn, e anche le sue parole, influenzavano la realtà stessa, irradiandosi attraverso i processi fondamentali dello spazio e del tempo, diffuse dagli stessi dèi.
Gli Eterei erano entità semi-divine, antiche quasi come il creato.
Ricambiò il sorriso.
Si guardò attorno: alle sue spalle la muraglia dell’Architettura saliva fino al cielo. Davanti a loro, invece, consunte scale di basalto si dipanavano attraverso il baratro infinito in un vortice irregolare di volute e rampe che collegava il cielo alle interiora del mondo. Ponti di metallo e roccia sgorgavano come denti in ogni direzione e fasci di cavi di trasmissione d’anima attraversavano l’abisso. In quel luogo antico le diverse culture tramandate dal 9 di 206
suo Clan e da quello dei tecnoidi sembravano mescolarsi.
Un sordo calore risaliva dal fondo, deformando la realtà in nuvole tremolanti nelle quali si agitavano spettri di luce e fumo, come occhi sospesi in aria che osservavano Belaren e i suoi compagni incedere verso le profondità del vertiginoso dirupo.
Leggiadre creature di pietra, simili a quella che aveva imitato le sue sembianze pochi istanti prima, protendevano le loro mani dalle scure pareti dell’Architettura.
– Cosa sono? – mormorò Belaren accorgendosi di essere rimasta un po’
indietro e accelerando il passo per raggiungere in fretta i suoi compagni.
– Quelle mani e volti che affiorano dalla roccia? – chiese sua madre.
La ragazzina annuì.
– Sono i sogni dell’Architettura: aggregati di dèi della pietra, dell’aria e dell’acqua – le spiegò la donna. – Vicino al centro del mondo, dove i legami della materia si fanno via via meno forti, le divinità si radunano in cerca di una forma.
– Non tutti possono vederli, Belaren – aggiunse Ghan. – Tra i presenti soltanto tu e tua madre siete tanto potenti. Io stesso non vedo che lievi increspature della realtà.
Belaren sobbalzò. Gli dèi dell’acqua le parlavano fin da quando era nata, ma non ne aveva mai visto le forme. Perché gli dèi erano invisibili.
– Ma come... – esordì.
– Sono processi di pensiero della rete sincretica – aggiunse Jehinn, che aveva letto la domanda nelle sue emozioni. – Vivono la loro esistenza nella pietra, nell’aria e nelle acque del mondo, ma solo in questo luogo si possono avvicinare alla superficie, perché siamo in prossimità del Khama. Sono qui perché sono curiosi di vederci, dato che normalmente siamo invisibili ai loro occhi, tanto quanto loro lo sono ai nostri. Eppure tu riesci a vederli. –
Ogni parola dell’Eterea era accompagnata da immagini e sensazioni di abissi lontani, fasci di luce improvvisi, prospettive innaturali, istantanee di mondi alieni e sfocati appena al di là della portata della percezione. La testa di Belaren girava.
– Ora comprendiamo perché i Sacerdoti del tuo Clan abbiano fatto di te un’Interprete, la tua potenza è incredibile per la tua età.
Nel frattempo il Custode aveva afferrato una fiaschetta che portava alla vita e ne aveva svuotato il contenuto in aria. Una lieve nebbia lattescente si diffuse attorno a loro, come uno spirito che li circondava gentilmente e sempre più, a ogni passo.
Belaren la fissò incuriosita, ma non ebbe il tempo di chiedere spiegazioni, perché i membri del gruppo continuarono la loro marcia a passo spedito.
Davanti a tutti procedevano Ghan e l’uomo misterioso vestito di nero. Subito dietro, venivano Jehinn e Miyaran. Belaren invece era l’ultima della fila e per un po’ li seguì in silenzio, guardando timorosa gli spettri evanescenti che la circondavano; poi si affrettò verso la madre, spaventata dal chiarore rossastro e pulsante che risaliva dal fondo del baratro e che illuminava il loro cammino.
A mano a mano che avanzavano il tempo parve dilatarsi all’infinito e la bambina si trovò a fissare prima gli adulti, poi il vuoto che si spalancava sotto ai suoi piedi, spezzato dal fitto intrico dei ponti e dai pensieri dell’Architettura che continuavano a muoversi attorno a lei e a guardarla dalle lontane pareti, come un mosaico dotato di vita propria. Si sforzò, nervosa, di non osservarli.
Proprio come prima, all’esterno, aveva cercato di non guardare i morti eterni, così cercò di fare con quegli dèi così diversi da come li aveva sempre immaginati; ma fu altrettanto inutile: lo strapiombo la chiamava con voce vibrante, sempre più vicina, sempre più forte.
Stavano ormai scendendo da un pezzo.
Si strinse addosso il manto che indossava: una veste blu come la luce del mare che si specchiava nel cielo. Un cielo che si faceva sempre più lontano.
Sollevò lo sguardo un’ultima volta, dove il maestoso frattale delle nubi tremava in cima all’Albero della vita come se l’uragano stesse per divorarli; ma a breve anche l’ultimo flebile spiraglio d’azzurro venne inghiottito dalla muraglia dell’Architettura che si stringeva sempre più, fino a soffocare ogni luce che non venisse dal proprio ventre.
Un’improvvisa ondata di calore salì mulinando dal centro del mondo e
Belaren, in un istante, si ritrovò a boccheggiare. Un rivolo di sudore le colò lungo una tempia, simile a un ragno che scivolasse sulla tela. La strana nebbia che li seguiva le si fece attorno: una sagoma di donna apparve nel mulinare scomposto e le deterse la fronte, con dolcezza. Belaren sussultò a quel contatto così umano.
– Non avere paura di lei – la tranquillizzò Ghan. – Non ti farà del male.
La bambina annuì, ma quella creatura era così simile agli dèi che vedeva
vorticare in aria tutto intorno a loro che...
– Sei una dèa? – le chiese mentre la figura le scivolava accanto, ridendo, ma quella tacque e si allontanò, a lenire la stanchezza di altri membri del gruppo.
Fu sua madre a risponderle: – Belaren, è solo una mesonebbia servente, un simulacro.
– I daimoni non puoi vederli a occhio nudo, perché sono infinitamente piccoli. Né mesoscopici, né microscopici: la loro scala è quella dello spazio-tempo stesso. Sono il limite inferiore dell’esistenza: l’ordine di infinito che contiene il nostro mondo.
– Come se avessi capito qualcosa – borbottò Belaren senza che gli altri la
sentissero, tuttavia Jehinn si volse per un istante e la bambina credette di
intuire un sorriso.
– Gli dèi della vita si stanno risvegliando, Ghan, dobbiamo sbrigarci – intervenne l’uomo vestito di nero. – Desidero essere a Moraiach per quando mio figlio nascerà.
Era la prima volta che parlava e Belaren ne fu affascinata: aveva una voce
grave e suadente. Molto diversa da come l’aveva immaginata. Molto meno
cupa. Gentile.
Aridan, dunque era questo il suo nome. Quegli occhi meccanici erano così
intensi, biometallo nel corpo, iridi di fuoco. Probabilmente solo il suo involucro era umano, al suo interno doveva essere ormai un ibrido, un tecnoide: cavi e carne. Gli uomini che ricorrevano a innesti rituali abitavano spesso nei livelli inferiori di Reallach e Moraiach, preferendo l’oscurità delle gallerie e delle miniere alla luce eterna della superficie, credendo nel feticcio della tecnica: non si curavano al tempio, ma in vasti saloni di roccia e acciaio che ne rigeneravano le carni. Secondo molti sacerdoti non appartenevano neppure al ceppo umano, ma alla progenie meticcia degli abitatori del profondo, razze antiche come gli Eterei, create dagli dèi della morte e della pietra prima degli uomini. Razze ormai scomparse nel tempo.
Eppure, in quel momento Belaren si rese conto che gli immensi golem di biometallo che il popolo di Aridan era bravo a costruire non erano tanto diversi dalla mesonebbia di Ghan: simulacri, come li aveva chiamati sua madre. Parvenze di esistenza prive di un’anima. Sollevò lo sguardo verso Jehinn: l’Eterea camminava silenziosa, celando i propri pensieri sotto al viso levigato e inespressivo. Belaren vi vide riflessa l’oscurità del vuoto. Più la osservava, più quella strana creatura l’affascinava e lo strano timore che aveva provato all’inizio svaniva. Nonostante fosse così aliena, era così... dolce. Tuttavia, era viva? O era anche lei un simulacro?
Resasi conto di essere ancora una volta rimasta indietro a fantasticare, Belaren accelerò il passo. Ora come non mai i pensieri dell’Architettura e degli dèi parevano interessati a lei: le figure di pietra erano migrate dalle pareti alla materia dei ponti, e una di esse s’era fatta tanto vicina da poterle quasi afferrare le caviglie. Sagome d’aria s’affollavano sempre più prossime: spettri di vapore esalati dall’abisso.
Occhi fin troppo umani la guardavano attraverso gli elementi.
Tutto questo la metteva in soggezione.
– Madre, ho paura – mormorò raggiungendo la donna e afferrandole la
mano in cerca di sicurezza.
– Non preoccuparti, Belaren – la consolò lei sorridendo.
– Perché procediamo a piedi? Perché non attraversiamo il tessuto del
mondo? Non faremmo prima? Sono stanca di camminare!
– Non possiamo alterare l’Architettura. Gli dèi non ci lascerebbero attraversare il tessuto del mondo in questo luogo, è troppo… delicato.
Anche Jehinn le sorrise, ma le sue emozioni erano colori e suoni che toccavano le corde dell’anima.
– La metrica del nucleo non può essere deformata. Nemmeno noi possiamo. I filtri imposti all’esistenza qui sono molto potenti.
– Uffa, non capisco… – sussurrò la bambina.
– Che cosa?
– Quando lei parla, non capisco nulla di quel che dice!
Davanti a loro Ghan scoppiò in una risata.
– Anche noi, Belaren, anche noi a volte non capiamo.
– Lo stesso vale per noi – fu la replica immediata di Jehinn.
La bambina fissò l’Eterea sconcertata. Non capiva loro o non capiva se stessa? E perché sembrava che stesse sorridendo? La stava prendendo in giro!
Imbronciandosi distolse lo sguardo da quella maschera di vetro.
– E comunque a che cosa serve il Khama? Perché dobbiamo proprio andare fin laggiù? – E con un gesto tremante indicò le profondità dell’abisso, simili alla gigantesca bocca di un mostro pronto a inghiottirli. – E perché proprio io?
Non capiva perché l’avessero trascinata in quel luogo. O meglio, lo intuiva: gli dèi dell’acqua le parlavano da quando era piccola; ma non le bastava: non capiva perché gli dèi volessero proprio lei, c’erano altre ragazze a Reallach che li sognavano.
Fu Ghan a risponderle: – Quel che dobbiamo fare è importante, Belaren: il rituale del Khama serve a mantenere stabile il nostro mondo, a dare nuova vita ai processi principali dell’Architettura. Tu sei un’Interprete naturale, la più potente del Clan, è il tuo destino e il tuo dovere fare da tramite agli dèi.
– Ma nessuno mi ha spiegato cosa devo fare. Questo rituale non…
– Ogni cosa a suo tempo, Belaren. Soprattutto i segreti.
Ma sua madre lo rimproverò.
– Sei il solito burbero. Come pensi possa capirti se non le diciamo nulla?
L’uomo vestito di nero sogghignò e continuò a camminare.
Ghan scosse le spalle, eppure Belaren intuì un sorriso fargli capolino sul
volto.
Jehinn le parlò, la sua voce era dolce: – Se ti narriamo una storia che solo i presenti conoscono, prometti che non la racconterai a nessuno, Belaren?
La bambina annuì e la madre le accarezzò i capelli dorati.
L’Eterea non si fece attendere: – Un tempo questo mondo non esisteva: esisteva invece un altro mondo, chiamato universo, di cui questo è figlio ed erede; il suo cielo non era luminoso, ma nero come la notte eterna, e in esso vagavano immense città di luce. Vi erano infinite terre, e non una, come sulla quale camminiamo. Era un mondo diverso; come altri che
c’erano stati e altri che ci saranno. Ma era giunto alla sua fine, perché ogni mondo muore a un certo punto. Per questo, prima che spsparisse, coloro che lo popolavano crearono i daimoni e vi sublimarono la loro esistenza, le terre che abitavano e le città di luce che illuminavano l’abisso.
Belaren sgranò gli occhi incredula: non era facile da immaginare, forse per questo nessuno gliene aveva mai parlato prima. Ciò di cui la donna stava parlando era una storia del tempo prima del tempo. Una storia che, proprio come Jehinn le aveva detto, pochi eletti conoscevano.
– Quindi gli dèi salvarono il mondo creandone uno nuovo dove potessimo abitare?
L’Eterea annuì e continuò: – I daimoni furono la porta per l’eternità e permisero a quel popolo di superare i limiti del tempo: quando l’universo morì, cancellando la materia e lo spazio, rimasero soltanto i daimoni, che si agitavano su se stessi in una gerarchia infinita, come spuma sulla superficie dell’inesistenza.
Il desiderio della vita di tornare alla luce era così codificato in profondità dentro di loro, che incrinò ogni vincolo e riuscì nell’intento: la luce perforò il velo del nulla, il vasto frattale del cielo coprì l’abisso e, ciò che non era vita, divenne morte. I daimoni si suddivisero così
in daimoni della luce e dell’oscurità, ma in realtà essi sono anche i daimoni
della vita e della morte. Voi oggi li chiamate dèi. Capisci?
Belaren dapprima annuì, poi scosse la testa.
– Sì, no… non proprio.
Fu sua madre a continuare.
– La vita è furia, figlia mia, è una volontà cieca, troppo vasta per qualsiasi cosa che non sia la vita stessa, fine a se stessa. Così gli dèi dell’oscurità e quelli della luce si scontrarono in una guerra eterna. Dal loro movimento, dal ribollire incessante della loro esistenza, presero forma lo spazio e il tempo, e in essi nacquero prima gli dèi del vento, poi quelli dell’acqua e infine quelli della terra.
– Divennero sempre più solidi – osò la bambina, e la madre annuì.
Jehinn continuò: – I daimoni sono simili alla mesonebbia che ci segue, ma la loro struttura primaria è infinitamente piccola, come luce. Nonostante questo collassano e cristallizzano, divenendo materia. A mano a mano che transiscono di fase, si fanno sempre più tangibili e acquisiscono anche maggiore consapevolezza.
– Davvero?
– Furono gli dèi della terra, gli ultimi nati – intervenne Ghan, – a comprendere cosa la guerra dei loro padri avesse generato: il continuo rimescolarsi della vita e della morte aveva dato origine a un mondo che non apparteneva a nessuno dei due regni, eppure a entrambi, al contempo: il nostro mondo. Un mondo fragile e instabile, in continuo mutamento. Un mondo
che poteva, in ogni istante, essere distrutto dalla loro guerra. Per questo eressero l’Architettura: essa è il nucleo dei processi del mondo.
– Per questo fecero tra loro un patto! – esclamò Belaren.
Sua madre annuì.
– Esatto, gli dèi della terra, gli Arhark Khama, concessero al mondo la possibilità di esistere: fecero dei loro corpi la terra che avrebbe sostenuto i nostri piedi e tenuto lontani gli dèi del fuoco che si agitano al centro del creato – spiegò indicando il fondo del vulcano, il nucleo da cui l’Architettura traeva la sua forza. – Mentre i loro fratelli avrebbero provveduto a noi, rendendoci figli anche dell’aria e dell’acqua.
A quel punto fu Ghan a riprendere la parola: – Il rituale serve a rinsaldare l’antico patto. Gli Arhark Shunà sono forti in te, Belaren, quindi tu sei una degna Interprete degli dèi del mare e dell’acqua. – Procedette accelerando il passo.
Ormai dovevano essere vicini alla meta: il calore stava diventando insopportabile.
La nebbia si faceva sempre più vicina per aiutarli e si era divisa in tante piccole entità surreali che li circondavano e blandivano. Al suo interno si riusciva a respirare senza soffocare. Belaren sospirò.
– Ma dobbiamo davvero scendere fino in fondo? – chiese.
– No – rispose Ghan sorridendo, – dobbiamo arrivare lì. – E indicò una costruzione sospesa nel vuoto, poche volute più in basso, una sagoma appena visibile a quella distanza, ma che, procedendo nella lenta discesa, si fece sempre più nitida: era il ventre piatto di un pilastro di metallo e biogranito nero che emergeva dal fondo del vulcano. Al suo centro si trovava una lastra di pietra marrone, intarsiata da una lieve filigrana di biometallo. Altre quattro lastre, di differenti colori, erano invece poste ai vertici di un quadrilatero: il rosso opposto al nero, il blu opposto al bianco. Gli stessi colori che loro indossavano, a simboleggiare le cinque grandi razze degli dèi: terra, aria, acqua, vita e morte. Cavi e guide metalliche correvano tra una lastra e l’altra.
– Il cuore dell’Architettura.
– Il nucleo che contiene i codici più antichi del creato.
Quando raggiunsero la piattaforma Ghan si pose al centro, sulla lastra marrone.
– Io sono Arhark Khama – esclamò, – Interprete degli dèi della terra.
Poi gli altri, a uno a uno, lo imitarono ponendosi sui rispettivi colori.
– Noi siamo Arhark Kaàl – recitò la mente di Jehinn, – Interpreti dei daimoni del vento.
– Io sono Arhark Shunà – fece eco Belaren, spaventata, e continuando a guardarsi intorno spaesata, recitando la formula che le avevano insegnato – Interprete degli dèi del mare e dell’acqua.
– Io sono Arhark Demòi – aggiunse Aridan, con la sua voce profonda e tonante – Interprete degli dèi della morte.
– Io sono Arhark Onam – recitò infine sua madre, bella come non mai, oramai un’esistenza trasfigurata, luminosa e splendente – Interprete degli dèi della luce.
– Che il Khama, ancora una volta, abbia inizio – proclamò Ghan.
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