Adesso, con la città in penombra, posso tirare fuori tutte le mie fotografie, i libri, i ciondoli, le mie statuette di vetro (tutte cose che provengono dalla Terra) senza che si sciolgano o prendano fuoco, come invece farebbero se la fornace andasse a pieno regime. Preferisco gli oggetti brillanti e fragili, come stelle filanti e bamboline con vestiti di raso e ali di plastica.
Nel crepuscolo, la mia stanza è cosparsa di ninnoli.
Sono seduta sul divano con i piedi all’insù e giocherello con una piccola sfera di vetro con la neve che Obie mi ha portato da Praga.
All’interno si trova la statuetta di una ballerina, in piedi sotto un albero spoglio. Quando la scuoto, i fiocchi bianchi le vorticano intorno, ricadendo. L’unica incerta fonte di luce proviene dal televisore e l’intera stanza sembra ondeggiare.
È difficile sapere come comportarsi con mia madre. La realtà è che, anche quando sono sicura che si sbagli, la sua voce conserva il tono dell’autorità. Voglio credere di essere capace di fare qualcosa di meglio che strisciare sulla Terra come fanno le mie sorelle. Voglio che sia lei a crederlo. Soprattutto, voglio credere di essere capace di fare qualcosa.
Scorgo l’ombra dietro di me riflettersi nella sfera ancor prima di sentire i passi di Obie. Quando mi volto, mio fratello è in piedi sulla soglia.
Indossa gli abiti del personale medico di un ospedale, pantaloni con l’elastico e un camice con le maniche corte senza bottoni. Tutta la divisa è di un verde pallido e assomiglia a un pigiama.
«Ehi» mi dice. «Hai un minuto?»
Annuisco, cullando il globo di vetro con entrambe le mani.
È una domanda strana, una domanda terrestre, dal momento che lì un minuto significa qualcosa. Qui non esistono minuti e il tempo è un continuo ciclo sconfinato.
«Ti ho portato gli orari di un autobus» mi dice, gettando un pieghevole di carta sul divano accanto a me. «È solo una linea locale, ma ho pensato che ti sarebbero piaciuti i colori.»
Sullo sfondo della mia stanza, riempita di scacciapensieri e giocattoli meccanici, mio fratello sembra un pezzo della collezione. Sotto il camice, tuttavia, è spento quanto me, con i capelli neri e la pelle bianca.
«Grazie» rispondo, sfogliando le pagine in modo da farle scorrere prima da un lato e poi dall’altro. Ogni linea è contrassegnata da un colore differente.
Come la maggior parte dei demoni, Obie opera in diverse città in tutto il mondo, ma non traffica con le sofferenze come fanno loro. Quando fu chiaro che non era adatto per le Collezioni, mio padre provò pena per lui e adesso Obie è il solo impiegato del Dipartimento delle Opere Buone.
È un lavoro migliore del raccoglitore, sebbene parecchi uomini non sarebbero d’accordo. Messi davanti a una scelta, molti di loro preferiscono raccogliere piuttosto che seminare.
C’è una striscia scura sul camice di Obie, vicino alla manica. È piccola, asimmetrica e vorrei chiedergli da dove proviene, se è il sangue di qualcuno. Tuttavia, sarebbe una domanda sciocca. Nel tipo di lavoro di Obie c’è sempre qualcuno che sanguina.
Il compito che gli è stato assegnato è quello di aiutare i bambini mezzosangue degli angeli caduti. Vengono chiamati i Perduti e molti di loro si sono meritati questo soprannome.
Non riesco a ricordare un incarico di Obie che non implicasse un ospedale, una prigione o una casa di cura. I Perduti tendono sempre ad autodistruggersi.
Si dirige verso di me, aggirando una lampada da pavimento di ottone e un mucchio di libri illustrati per bambini. Si lascia cadere sullo sgabello, sedendosi di fronte a me con le mani giunte fra le ginocchia.
Lo osservo attraverso la superficie del globo di neve. Il suo volto appare distorto, ma riesco ugualmente a riconoscere i singoli tratti. La bocca è identica alla mia. Il mento, gli zigomi e i capelli anche. Gli occhi, invece, no.
«Me ne vado» dice all’improvviso. Pronuncia la frase come se si aspettasse una protesta da parte mia, ma la sua dichiarazione non è granché degna di nota. Se ne va sempre.
«Se te ne vai da qualche parte vicino a Malta, potresti portarmi dei
pizzi di Gozo?»
Obie stacca uno dei nastri ricamati sullo sgabello. Poi scuote la testa.
«Me ne vado» ripete, «Daphne, non tornerò più.»
Per un attimo rimango semplicemente seduta, soppesando il globo di neve nella mia mano. «Che cosa stai dicendo?»
Abbassa la testa, guardando altrove. «Non posso più rimanere qui. È... è troppo dura vivere in questo posto. Fingere che sia casa mia.»
Per un momento credo di capire perché sia convinto che questo non sia il suo posto. Suo padre era un vero essere umano, fatto di carne e sangue, un cuore e un’anima. Onesto e virtuoso. Il mio era una stella, prima di diventare il Diavolo.
Poi, Obie alza gli occhi e mi domando come io possa anche solo aver dubitato che il suo posto sia qui, nel Pandemonio. I suoi occhi sono di un grigio pallido. Assomiglia incredibilmente a nostra madre.
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