Coincidenze mancate

il treno uscì sbuffando dalla Gare du Nord, attraversando paesaggi industriali che sembravano campi spruzzati di grigio dove non cresceva nulla. i lampioni gettavano un bagliore spettrale sui muri spogli di quella zona poco attraente della città. Si stava lasciando dietro Parigi poco alla volta e gli sembrò di essersi perso qualcosa. C’erano stati degli indizi, rifletté, sparsi sui marciapiedi, lasciati cadere nei bar fumosi, delle appariscenti insegne luminose che dicevano: stai seguendo la pista sbagliata.

Ma poi, qual era la pista? Questi erano i fatti: il suo nome era Joe. era un investigatore privato. era stato assunto per rintracciare un uomo ed era stato finanziato più che adeguatamente per riuscirci. Tutto il resto…

Questi erano i fatti. i fatti erano importanti. Separavano la finzione dalla realtà, il dozzinale mondo di Mike Longshott dagli spazi reali del mondo di Joe. Tutto il resto… 

Si sedette nella carrozza ristorante a fumare e osservare le luci di Parigi che scomparivano in lontananza, come un nugolo di falene sparpagliate. Gli erano sempre piaciuti i treni.

C’era un senso di eternità nella maniera in cui attraversavano i paesaggi, qualcosa di consolatorio nel loro ritmo e nel loro muoversi incessante, una sequenza regolare di suono e movimento. il treno emise un fischio, e la cosa lo fece sorridere.

Lo scompartimento era mezzo vuoto, insieme all’aria pesante di fumo sentiva il profumo del tè in infusione e della cera per pavimenti; mentre il treno acquistava velocità i finestrini vibravano leggermente, gli ingranaggi giravano con una costanza rassicurante, i vetri si appannarono trasformando la carrozza in un bozzolo, e non ebbe alcun desiderio di andarsene da lì.

eppure, una piccola parte di lui lo fece. era quella parte che, mentre guardava fuori dal finestrino aspirando dalla sigaretta e lasciando che le luci nel buio là fuori si confondessero tra di loro man mano che il treno acquistava velocità, faceva domande. Quella parte che lo rendeva inquieto e irritabile. era quella parte che insinuava che si fosse smarrito sotto terra. Che avesse preso la linea sbagliata, che avesse mancato la coincidenza, ma piuttosto che ammetterlo a se stesso continuava a viaggiare sul treno verso un altro luogo.

No. C’erano i fatti. Tutto il resto – il Parc Monceau con il suo paesaggio artefatto, gli uomini in nero, il modo in cui Papadopoulos gli aveva posto la domanda, “È uno di loro? Un rifugiato?” – nulla di tutto ciò aveva un significato, se non – forse – in stretta relazione al caso specifico. era importante, e sentì il bisogno in qualche modo di ricordarlo a se stesso, non confondere la realtà con la finzione. dopo essersi apparentemente chiarito le idee ordinò del tè, il che gli fece venire il sospetto che forse non stava poi così bene, visto che di solito lo beveva soltanto quando era malato, e accese un’altra sigaretta prima di accorgersi che quella precedente stava ancora ardendo nel posacenere. Osservò un corpulento uomo bianco con il naso a patata, un berretto molle e uno zaino blu sporco entrare nella carrozza dalla passerella intercomunicante, seguito da una ragazza cinese incredibilmente carina di almeno quindici anni più giovane;  lei aveva una macchina fotografica reflex intorno al collo e portava i capelli lunghi e sciolti. individuarono un tavolo vuoto, si sedettero e iniziarono a parlare a bassa voce mentre le loro dita si intrecciavano sul piano; l’uomo rompeva il contatto per gesticolare, la ragazza gli sorrideva con evidente affetto. Tra loro c’era qualcosa di molto reale e solido, e Joe si domandò cosa ci trovasse in lui; il mondo girava attorno a loro, lo avevano ricreato a loro uso, eppure ne facevano pienamente parte, strani, disorientanti e inspiegabili nella loro relazione, di cui Joe non avrebbe mai conosciuto la vera natura o l’origine, la cui storia era un affare privato. Le loro vite avevano seguito destini separati e ora si erano unite, e in seguito potevano slegarsi, riunirsi, proseguire o dividersi.

a un altro tavolo c’era un uomo con una faccia da slavo, folti baffi scuri con dei fili d’argento e villose mani abbronzate che stringevano una tazza di caffè. Tre giovani donne dalla pelle chiara sedevano insieme parlando rapidamente in francese, con i sacchetti dello shopping ai piedi. Sentì un’anomala sensazione di distacco rispetto a quelle persone, una distanza che non poteva – non voleva – esprimere. 

erano padroni della carrozza – il suo spazio interno, lo spazio intorno a loro – in un modo che non riusciva a comprendere del tutto, ma che sapeva solo – ancora una volta attraverso quella piccola parte ribelle di sé che stava cercando di non ascoltare – di non potere, nella maniera più assoluta, condividere.

C’era quella ragazza, a Parigi. Non conosceva nemmeno il suo nome. Ma conosceva lei. il legame tra di loro lo preoccupava. e poi se n’era andata – come foglie che volano per la strada, come nuvole che si ammassano sul tramonto – e lui non era in grado di spiegarlo razionalmente. distolse la mente da quel pensiero, dal ricordo di lei, e anche da quello del Parc Monceau, dove per un momento aveva avuto la strana sensazione di esserci già stato e di aver passeggiato mano nella mano con una ragazza… Sorseggiò il tè ormai freddo, in bocca il sapore di foglie rimaste a mollo troppo a lungo, ingoiò, si alzò in piedi e si diresse al suo scompartimento verso un sonno nero e senza sogni.