Capitolo 1
Dovevano essere passate un paio d’ore, forse tre, da quando Alakim aveva preso sonno.
Si rigirò nel letto con la bocca secca e un forte mal di testa che gli premeva sulle tempie. Allungò una mano cercando tastoni i suoi occhiali scuri, li indossò e aprì le palpebre: sul soffitto della camera la luce fioca della candela danzava tra le increspature della roccia.
Si passò una mano sulla fronte e la sentì umida di sudore, nonostante fosse a dieci metri di profondità, sotto i monti della periferia di Marsiglia, dove la temperatura non si scosta mai troppo dai quindici gradi. Colpa della fame insaziabile che gli insidiava il ventre come se fosse una bestia viva. Troppo viva.
Merda!
Mise giù i piedi dal letto e cercò di oltrepassare il tappeto rosso ciliegia; fece appena in tempo a correre sulla tazza del water, quando un conato gli rovesciò lo stomaco. Esausto rimase in ginocchio, appoggiò i gomiti sorreggendosi la fronte con la mano. Sarebbe anche potuto cadere nell’oblio, con il puzzo del suo stesso vomito che gli pizzicava le narici, se non fosse entrato Samshat.
«Di nuovo pollo fritto?» Lo schernì l’amico sorridendo.
Alakim sollevò gli occhiali scuri per stropicciarsi le orbite. «Mi piace.» Purtroppo però il suo era un tipo di fame per la quale non serviva a nulla ab-
buffarsi di cibarie, per quanto deliziose fossero.
«E ti piace anche agonizzare sul pisciatoio? Ti piacciono un sacco di cose amico mio e ti fanno tutte molto male.» Samshat lo prese sotto le ascelle per aiutarlo ad alzarsi.
Alakim non si poteva definire esile; era piuttosto alto e aveva muscoli che non passavano certo inosservati. Tuttavia, Samshat, alto quanto la porta e dalla stazza di un bisonte, lo sollevò con facilità.
«Da quando non si bussa più?» Inveì Alakim.
«Ho bussato, ma tu eri troppo impegnato a fare i versi di una scrofa in calore per accorgertene.» Arricciò il naso spingendo l’amico sotto la doccia. «Puzzi come un preservativo usato.»
«Ma va?» Alakim indicò la sagoma di una ragazza raggomitolata sul letto per il freddo. «Se vuoi farmi un favore, liberamene prima che torni sobria.» Fece un passo in avanti e il getto d’acqua calda lo investì alleviando i sintomi penosi della fame.
Un ciuffo di ispidi capelli viola spuntò dal raso nero delle lenzuola. «Pezzo d’imbecille. Non sarò sobria, ma ci sento benissimo!»
«Amore a prima vista, suppongo» commentò Samshat richiudendosi alle spalle la porta del bagno.
La ragazza si alzò controvoglia trascinandosi appresso le coperte; diede un’occhiata alla stanza come se la vedesse per la prima volta e si sentì immersa in una sorta di bunker scavato nella roccia. Si mise a raccogliere i propri indumenti, procedendo a testa bassa finché non sbatté contro un muro di cemento... o almeno le parve. Risalì allora con lo sguardo lungo l’imponente figura di Samshat, ritrovandosi così con il capo piegato all’indietro.
«Chi sei?»
«Il buon samaritano» le rispose il colosso, esibendo, appeso a un dito, un triangolino di stoffa nera.
Lei gli strappò di mano il piccolo perizoma. «Beh, grazie, ce la faccio da sola.»
Aveva un’aria sfatta e sperduta; probabilmente non si ricordava nemmeno com’era finita laggiù.
Alakim uscì dal bagno con l’asciugamano avvolto in vita. La barba incolta e gli occhiali scuri celavano in parte il suo volto; un volto duro come una roccia segnata dalle intemperie.
«Oh cavolo, ma cos’è?» La ragazza strabuzzò gli occhi premendosi una mano tra i seni. Il particolare che l’aveva colpita, al punto da farle scivolare gli indumenti di mano, non poteva che essere il “giocattolino” che Alakim portava incastonato nel torace: una placca metallica circolare, decentrata verso il cuore, contornata da un intreccio di cicatrici che contribuivano a renderla più decorativa e assai più sinistra di qualunque tatuaggio o piercing avesse mai visto prima. Difficile non notarla, a meno di non avervi fatto l’abitudine per anni… tanti anni.
Alakim si passò le mani tra i ciuffi di capelli rossi che continuavano a grondare acqua sul petto.
«Non è niente che ti possa riguardare.»
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