Quando riaprì gli occhi si trovò nel silenzio della grande grotta, dove tutto sembrava fermo, apparentemente immutabile. Il laghetto di acqua cristallina, sul fondo della caverna, rispecchiava la spettacolare formazione stalattitica che lo sovrastava; era un paesaggio antico, con rocce aguzze a pungere l’aria e dove i suoni rimbalzavano sulla pietra in modo tanto ovattato da trasmettere la sensazione di trovarsi all’interno di un banco di nebbia. Nell’intreccio di antri e profondi cunicoli che Alakim e i suoi amici chiamavano “casa”, quella grotta fungeva da salotto, con tanto di rudimentale impianto elettrico e tre Chester, uno per ciascuno; inizialmente questi divani erano soltanto due, neri e posti frontalmente, ma con l’arrivo di Alakim ne era stato aggiunto un terzo, rosso borgogna, a formare un semicerchio che guardava verso la piramide di libri addossata alla parete.
L’unico segno di moderna civiltà, in quell’essenziale salotto, consisteva in una macchinetta del caffè; peccato solo che l’odore del benzoino che fumava nel braciere di Muriel impregnava l’aria sovrastando qualsiasi altro aroma.
Alakim nutriva dei seri dubbi sul fatto che i fumi del composto fossero in grado di allontanare gli spiriti, ma ormai per lui quell’olezzo era sinonimo di luogo protetto; certo, se tonnellate di terra e roccia non erano sufficienti a ripararli dallo sguardo del cielo, dubitava che ne sarebbe stato capace un alito di fumo.
Disteso sul divano, Muriel, assaporava il momento sacro della sua giornata: sgranocchiare in santa pace il take-away che si era guadagnato lavorando al Rear per tutta la notte. Aveva il suo solito broncio triste e un po’ misterioso; indossava ancora la maglietta di lycra, con il logo triangolare del locale, che gli aderiva agli addominali come una seconda pelle. Sebbene sua madre fosse una nativa Natchez, Muriel aveva solo alcuni tratti in comune con i suoi antenati. Sulla sua pelle candida si stagliavano occhi azzurro ghiaccio, mentre i capelli, spessi e folti, tradivano le materne origini indiane. Un tempo la donna glieli raccoglieva in una lunga treccia scura, ma ora lui li preferiva tagliati corti e con un look spettinato. Sul divano di mezzo Samshat leggeva Le Monde, attendendo l’ora di recarsi al porto. Negli ultimi anni il lavoro dello scaricatore era stato alleggerito parecchio dalle nuove tecnologie, ma quando ancora serviva la pura forza delle braccia,
Samshat si rendeva disponibile; possibilmente negli orari più impensati, per quei carichi che giungevano nel cuore della notte, lontano dal clamore e dalla gente.
Osservando entrambi i suoi amici, Alakim poteva benissimo intuire quanto non desiderassero altro che vivere lontano dal chiasso del mondo caotico di superficie. Avevano trascorso troppi anni lottando in guerre che non erano le loro, soffrendo per quell’infinito susseguirsi di perdite che ne conseguiva e tutto ciò che ora desideravano era la quiete. Peccato solo che la pace dei sotterranei non potesse riempire i loro stomaci, altrimenti non ne sarebbero mai usciti.
Alakim prese posto sul suo Chester rosso e interrogò Samshat. «Avanti, dimmi di questo prete.»
Muriel inarcò un sopracciglio, tenendo le bacchette cinesi sospese a mezz’aria.
«Quale prete?»
Il piacere con il quale si stava sfamando catturò tutta l’attenzione di Alakim, tanto che dovette sforzarsi di distogliere lo sguardo e andare a versarsi una tazza di caffè, sperando di riuscire a tenerla in corpo.
«Pare che sia una specie di sensitivo.» Ancora chino sul giornale, Samshat si lisciò i lunghi baffi grigio-bianchi ai lati della bocca. «Il sacerdote ha dichiarato di aver avvertito una grossa colpa gravare su quell’uomo, non appena ha messo piede in chiesa. Alla fine è merito suo se hanno salvato la ragazzina. Ha sentito che era malvagio e aveva ragione.»
«Di che ragazzina stai parlando?» Alakim trangugiò il caffè amaro e bollente.
«Questa ragazzina.» Gli sventolò davanti la prima pagina del giornale battendovi sopra l’indice. «Il prodigio che legge libri al contrario, rapita due settimane fa. Ormai non si parla d’altro che di lei in giro.»
«Ah, sì?»
«Ma che ti parlo a fare?» Sbottò Samshat esasperato. «Sembra che tu non sia mai vissuto su questo pianeta!»
«Infatti ci vivo dentro, il più in profondità possibile.»
Muriel si raddrizzò posando in terra il cartoccio vuoto del proprio pasto. «Credi davvero che sia un sensitivo?»
«Credo che sappia riconoscere la cattiveria e se può far questo magari sa riconoscere anche altre cose nascoste nell’animo di una persona.» Samshat guardò Alakim. «Facci un giro da quel prete, che ti costa?»
«Non mi costa niente. Dimmi dove lo trovo.»
Prese nota mentalmente delle indicazioni fornite dall’amico e guardò la sveglia appoggiata sulla macchinetta del caffè: sette e trenta. Questo significava altre dodici ore prima del tramonto e un’altra lunga giornata di inedia passata tra i morsi della fame. Mise la testa su un bracciolo, i piedi sull’altro e cominciò ad aspettare.
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