Isaac vive all’intersezione di mondi che si compenetrano e si interfacciano: dalla Sicilia del 413 a.C., attraverso la Porta del Vento, è possibile raggiungere una città terrestre del futuro ma anche un lontano pianeta dove una razza aliena esegue inquietanti esperimenti sugli esseri umani.
Tutto quanto accade/oscilla continuamente tra mente, realtà e sogno: un’atmosfera onirico-lisergica dove il protagonista è umano ma forse non lo è, le creature di altri mondi forse esistono forse no, magari sono frutto della sua mente malata, o giungono da un lontanissimo futuro per metterne alla prova le emozioni.
Cerchiamo di capire, e non è facile. Abbiamo un protagonista (Isaac) che vive nella città di Anigad (Terra, 2358 d.C.) dove è successo qualcosa di terribile che l’ha ridotta in macerie. Forse un’esplosione.
Anigad non è una città convenzionale: sembra una specie di fluttuante Venezia senza mare, con canali/vie fatte di nebbia e non di acqua, dove navigano vascelli (le Navi Bianche) mossi da una forza (tecnologia?) chiamata Vento Perenne a Equilibrio 3.
La vita di Isaac è infestata da strane presenze che giungono ogni sera attraverso i Sentieri della Luna e l’Antica Strada della Luce Fluttuante, visibili solo a lui, dal futuro (anno 4358 d.C.) e dal lontano pianeta Athor. Nur e Sireus sono voci amiche di razza Elth, mentre Nenella e Ekta appartengono ai malvagi Nerth. Ma non è tutto qui: abbiamo piani paralleli finti ma perfettamente integrati, scarti di memoria per costruire sogni, un tumore al cervello che forse è la causa di tutto questo incrocio di mondi metafisici. E poi, Portali, viaggi avanti e indietro nel tempo, un collegamento con la città di Segesta in età classica di cui non si capisce bene il significato e il cui scopo è probabilmente NON capire il significato.
Il tutto immerso nel desiderio di perdersi in un assolato paesaggio mediterraneo denso dei profumi e del mare di Sicilia, dove è possibile finalmente “abbandonarsi all’aria” fra i cespugli di mirto e sotto le stelle.
Più di questo non è dato sapere: Accenni d’autunno è una storia scritta come una poesia in prosa, dove il lettore si perde senza capire il senso di quello che legge e gira in cerchio fino alla fine rimanendo con tante domande senza risposta. Perché la Sicilia al tempo dell’invasione Ateniese? Chi è Anatolius? Nur e Isaac sono destinati a perdersi o a trovarsi? Qual è il senso della vita? Ragione o sentimento? Cosa vuol dire il titolo, anche se l’autunno è effettivamente nominato nella storia? Voglia di morte, senso di morte? Morte di cosa? Del corpo, dello spirito, della speranza, della voglia di vivere o un misto di tutto?
C'è la sensazione che l’autore suggerisca come via di sopravvivenza mentale e fisica l’abbandono della realtà e il rifugio nel sogno, abbattendo ogni confine, mescolando tutto, rifugiandosi nell'estremizzazione della sospensione d’incredulità.
Inoltre, nessuno “parla” o “dice” o “racconta”. Tutti urlano, gridano e sbraitano, eppure non sembra ci siano problemi di udito da parte dei personaggi: se questo è un sistema (urlare) per rendere più facile la comprensione del testo, non funziona.
Il limite enorme di questo libro è proprio il suo essere senza chiarezza, senza quel minimo di assetto comprensibile dalla parte razionale della mente: tutto è percezioni, proiezioni slegate, immagini liriche impossibili da radunare in un quadro organico.
Gli approcci possibili sono due: leggere per leggere, chiudendo gli occhi e lasciandosi andare alle “visioni”, oppure mettere da parte il libro dopo le prime pagine con un forte nervosismo, chiedendosi perché un autore pubblica qualcosa con l'intento, volontario o meno, di non farsi capire da nessuno.
Per finire, se questa stessa recensione risulta incomprensibile ha centrato il suo scopo, interpretando esattamente l’effetto del romanzo.
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