Di solito non incontro grossi problemi quando scrivo, sebbene io non faccia preventivamente sunti, schemi o altro. A volte prendo alcuni appunti per idee da sviluppare. Quasi sempre non so ancora come chiuderò il finale, ma le idee vengono mentre la storia viene narrata: emergono man mano dettagli che possono offrire un seguito, una funzione. Qualche volta mi sono ritrovato a un punto critico che mi sembrava insuperabile e cancellava tutto ciò che avevo scritto: ma poi, pensandoci, è uscita la soluzione. Per quanto riguarda “Replay” è andata proprio così: qualche appunto su un foglio, qualche intoppo poi superato, nell’insieme… tutto normale.
Perché hai scelto Venezia per ambientare una particolare scena della storia?
Venezia è stata soltanto un risultato… “tecnico”: nulla di romantico nella scelta, quindi in questa manovra (ma il lettore non può e non deve saperlo). Se il finale doveva essere drammatico, volevo presentarlo in una cornice di particolare fascino. So benissimo che Venezia è un palcoscenico abusato: ho quindi cercato di evitare le località più letterariamente e cinematograficamente frequentate della città – tipo Piazza San Marco etc. – e ho scelto un prezioso faro cinquecentesco palladiano e i misteri di vicoli, canali e antiche trattorie… sperando nel meglio.
Lo stile di questo romanzo è diverso da quello che hai adoperato in altri tuoi scritti?
Sì, credo lo sia, per una forse evidente carica emotiva. Poi perché nel 1994 scrivevo in modo un po’ diverso da quello del 1962 e quello odierno. Più passa il tempo, più scopro che avevo una tendenza ad allungare le frasi, a usare – inconsapevolmente – un linguaggio talora un po’ retorico, o che oggi mi risulta tale. Nel rileggere i miei vecchi scritti, inoltre – ma in questo non sono responsabile – scopro decine e decine di parole oggi desuete, totalmente dimenticate, sconosciute ormai ai più. La cosa mi spaventa: perdere centinaia di vocaboli è anche perdere centinaia di altri significati, un impoverimento del linguaggio, perché se un termine ha un sinonimo, quest’ultimo ha sempre una sfumatura di diversità – sia pure minima – rispetto alla parola in oggetto.
Consigli per esordienti che scrivono SF?
(Quelli che seguono sono consigli personali, che potrebbero essere non condivisi, ma che per me hanno avuto un valore) – Anzitutto di leggere narrativa, di qualunque genere: chi impara a leggere (nel senso già illustrato sopra) impara più facilmente a scrivere. Sarebbe utile inoltre leggere almeno i romanzi più importanti della storia della fantascienza: può rivelarsi un elemento essenziale. Infatti, in amici più giovani che hanno tentato di scrivere sf, ho ritrovato temi o moduli narrativi già ampiamente sfruttati in passato, e che un vecchio fan subito riconosce e scarta. Vero è che una storia ben scritta è sempre ben accetta, ma in questo caso perderebbe buona parte del suo valore, per mancanza di originalità. Oggi leggere critica di fantascienza è raro. Se ne scrive pochissima (altro cattivo segnale), ma esistono non pochi testi, risalenti agli anni ’60/80 e tuttora validi. La fantascienza ha una sua storia e ha attraversato varie fasi: la sf ottocentesca dei precursori, quella avventurosa e spaziale degli anni ’30/40, la già accennata “social science fiction” dei ’50, la New Wave, infine il “cyberpunk”, che è stato una autentica rivoluzione in ambito fantascientifico ma anche al di fuori. Atto finale: far leggere il proprio testo a terzi, che siano possibilmente non influenzabili per parentele, amicizie ed affetti. Lo so, è difficile trovare la persona giusta…
Come si sta evolvendo la fantascienza e cosa cambieresti?
2 commenti
Aggiungi un commentoBell'intervista, sono d'accordo con tutto quello che sostiene Vittorio
Grazie, Gian! Per me è incoraggiante...
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