Il nome dei Manowar è marchiato a fuoco nella storia del metal. Questo è un dato di fatto, non una speculazione. Il loro atteggiamento di superiorità nei confronti di tutto e tutti, il loro ergersi a unici paladini del vero metal relegando tutti gli altri gruppi a mere comparse sul palcoscenico di questo genere, ha spesso diviso il pubblico. Da una parte coloro che idolatrano i Manowar, dall’altra chi li considera dei buffoni. Qualsiasi sia il giudizio sulla band americana, però, non si può negare che sia autrice di veri e propri capolavori come Battle Hymns, Louder than Hell, The Sign of the Hammer, The Triumph of Steel o Kings of Metal. Capolavori che, purtroppo, sembrano essere ormai relegati al passato del gruppo.
Da qualche tempo, infatti, la vena creativa dei Manowar sembra un po’ inaridita. Un fatto di cui sembrano essersi resi conto anche i più indefessi fedeli alla linea, per i quali, normalmente, qualsiasi prodotto targato DiMaio e Co. è sempre stato un capolavoro a prescindere. Gli ultimi full-lenght son ben lontani dai fasti delle grandi uscite, nonostante il tanto tempo speso per la loro scrittura, con poche canzoni, ancor meno quelle degne di nota, e tanti filler composti da intermezzi strumentali e discorsi, decisamente più adatti a un concerto che a un CD. Mentre si sono moltiplicati i live e le edizioni e riedizioni con minime differenze dello stesso album, fino ad arrivare alle ri-registrazioni dei dischi del passato.
L’ennesimo nato da questa sovra-produzione a marchio Manowar, è una nuova versione del grande classico Kings of Metal, un disco che non dovrebbe mancare nella collezione di qualsiasi metallaro che si rispetti, amante o meno dell’epic.
Sinceramente già l’idea della ri-registrazione di Battle Hymns ci aveva trovati piuttosto freddi ai tempi, sensazioni poi confermate in sede di ascolto. Tutto ruota attorno all’idea di celebrare i dischi più importanti della discografia del gruppo in occasione di ricorrenze significative. In questo caso, ad esempio, il venticinquennale dall’uscita dell’album, risalente al 1998.
Le mirabolanti affermazioni di Di Maio e Co., però, a volte ci fanno storcere un po’ il naso. Per esempio già diverse son le dichiarazioni sul fatto che l’attuale sarebbe la formazione definitiva dei Manowar, quella che non cambierà mai più, la migliore in assoluto. Da questo concetto al ritenere che tutti gli album dovrebbero avere lo stile, il marchio, di questi musicisti e, dunque, bisognerebbe ri-registrare tutti gli album passati con questa line-up, il passo è breve. Purtroppo, come fan del gruppo di lunga data, ricordiamo discorsi simili già fatti più volte nel corso degli anni (la maggior parte dei quali riguardava soprattutto il compianto Scott Columbus), nei confronti di musicisti diversi, in alcuni casi anche più dotati degli attuali (un nome su tutti: Rhino, al secolo Kenny Earl Edwards, alla batteria). Questa nuova iniziativa, dunque, ai nostri occhi non parte sotto i migliori auspici. Ma non faremmo cosa utile ai lettori, se ci ponessimo all’ascolto di questo Kings of Metal MMXIV col paraocchi, quindi al bando i preconcetti, ecco cosa troverete quando metterete il CD nel lettore.
Tutto l’album ha subito un certo restyling: la copertina rimane abbastanza fedele all’originale, ma il warrior dei Manowar è circondato da molte più bandiere (poi vedremo perché), perfino i titoli delle canzoni han subito un aggiornamento. Piccole differenze, piccole modifiche, oltre all’immancabile MMXIV in calce, che dovrebbero presentare le canzoni come fossero tirate a lucido, quasi fossero nuove. Abbiamo dunque The Warriors Prayer che diviene A Warrior’s Prayer MMXIV, mentre a The Crown and the Ring vien dato un tono arcaico, trasformandosi in Thy Crown and Thy Ring MMXIV e così via.
La scaletta è mutata rispetto all’originale Kings of Metal, non più Wheels of Fire ad aprire le danze, bensì la canzone che è divenuta negli anni un po’ il simbolo non solo di questo disco, ma degli stessi Manowar: Hail and Kill.
La produzione è, ovviamente, pompatissima. Sotto steroidi, potremmo dire. Con suoni potenti, pieni, davvero avvolgenti, capaci di far felici tutti i possessori di un impianto di spessore. Molti, probabilmente, ringrazieranno per questa uscita anche solo in virtù della produzione, che permette, finalmente, di dare piena rilevanza a queste canzoni.
Per il resto, però, c’è ben poco da segnalare. Il brano viene ri-eseguito quasi come fosse una fotocopia, le modifiche sono minime, non sostanziali (come, d’altronde, dovrebbe essere per non tradire l’originale). Qui e là viene aggiunto qualche arpeggio di chitarra e di basso e in particolare diversi sono i virtuosismi e gli assoli in più di Karl Logan (che deve evidentemente cercare di differenziarsi da Ross the Boss, che suonava sull’originale). Differenze, queste, comuni un po’ a tutte le tracce di questo Kings of Metal MMXIV, come fossero un marchio di fabbrica della nuova versione, su cui, come si diceva, devono lasciare il segno i membri attuali della band.
Ciò che salta subito alle orecchie è la prestazione di Eric Adams. Il singer dei Manowar va, ormai, per le sessantadue primavere e non son certo in molti a poter vantare ancora una voce simile a quell’età. Dietro al microfono rimane impressionante anche paragonato a suoi colleghi ben più giovani. Ma Kings of Metal è un album dalle linee vocali impegnative e se la nuova produzione migliorata da una parte esalta la voce di Adams e le dà anche qualche aiutino, rendendola più potente, dall’altra mette in luce all’orecchio più allenato anche le più piccole mancanze del singer, soprattutto sotto il profilo dell’estensione e nei passaggi più aggressivi. La prestazione del singer è quindi distante da quella del 1988, ma non tanto quanto ci si sarebbe potuti aspettare.
Tutto molto simile al disco originale, dunque, pochi i cambiamenti. Una di queste son le bandiere in copertina, di cui parlavamo in apertura, giustificate dal testo di Blood of the Kings (divenuta per l’occasione The Blood of the Kings MMXIV), che si allunga per accogliere una nuova strofa, di fatto semplicemente un semplice elenco di altri stati oltre a quelli che venivano nominati inizialmente.
La vere differenze rispetto all’originale Kings of Metal, dunque, sono in realtà solo due. La prima è l’assenza in scaletta di un brano: Pleasure Slave, che, pur avendo sempre fatto parte del disco, era comunque considerata una bonus track. La seconda è il cambiamento della voce narrante di The Warriors Prayer, da Arthur Wilshire si è passati all’attore shakespeariano Brian Blessed. Il quale fa un gran bel lavoro e bisogna dargli atto che la sua interpretazione è decisamente più partecipata e recitata rispetto all’originale, la quale era, invece, piuttosto piatta, quasi l’attore si fosse limitato a leggere un testo.
In chiusura di scaletta, ecco una versione solo strumentale di Thy Crown and Thy Ring e The Heart of Steel. Si tratta di una sorta di assaggio per ingolosire gli acquirenti. Il disco, infatti, è presentato in una doppia edizione: download digitale (uscita a inizio febbraio) e Silver (la versione fisica, disponibile nei negozi solo da fine febbraio). La versione argentata si compone di due CD, il secondo dei quali ripresenta quasi tutte le tracce in versione strumentale, senza voce e cori. Ci sembra, però, che queste ultime non aggiungano nulla di che al valore intrinseco dell’album e si rivolgano solo ed esclusivamente ai fan più intransigenti.
Per concludere, dunque, Kings of Metal MMXIV è una uscita che si rivolge solo ai fan più indefessi, intenzionati e interessati a collezionare qualsiasi prodotto a marchio Manowar. Per tutti gli altri finirebbe per ridursi, semplicemente, in una copia, registrata un po’ meglio, di un disco che hanno già. Al massimo potrebbe essere consigliabile come acquisto a coloro, pochissimi, che ancora non possiedono un capolavoro del metal come l’originale “Kings of Metal”. In questo sfortunato caso, l’acquisto di “Kings of Metal MMXIV” potrebbe essere una buona idea, così da poter colmare una gravissima lacuna potendo godere di una produzione migliorata e decisamente più potente. In generale, però, non si sentiva davvero il bisogno di questa uscita, sostanzialmente inutile, e avremmo di gran lunga preferito che i Manowar si concentrassero sullo sfornare album nuovi, che fossero, però, al livello dei grandi capolavori del loro passato.
Tracklist
Disc 1
1. Hail and Kill MMXIV 06:13
2. Kings of Metal MMXIV 03:42
3. The Heart of Steel MMXIV (Acoustic Intro Version) 05:09
4. A Warrior's Prayer MMXIV 05:44
5. The Blood of the Kings MMXIV 08:01
6. Thy Kingdom Come MMXIV 04:06
7. The Sting of the Bumblebee MMXIV 01:16
8. Thy Crown and Thy Ring MMXIV (Orchestral Version) 04:57
9. On Wheels of Fire MMXIV 04:14
10. Thy Crown and Thy Ring MMXIV (Metal Version) 04:57
11. The Heart of Steel MMXIV (Guitar Instrumental) 04:50
53:09
Disc 2
1. Hail and Kill MMXIV 06:13
2. Kings of Metal MMXIV 03:42
3. The Heart of Steel MMXIV (Orchestral Intro Version) 04:50
4. The Blood of the Kings MMXIV 08:01
5. Thy Kingdom Come MMXIV 04:07
6. Thy Crown and Thy Ring MMXIV (Orchestral Version) 04:57
7. On Wheels of Fire MMXIV 04:14
36:04
Line-Up
Joey DeMaio Bass, Keyboards
Eric Adams Vocals
Donnie Hamzik Drums
Karl Logan Guitars, Keyboards
4 commenti
Aggiungi un commentoMi tengo Kings of Metal originale: album come questo recensito sono solo "commercialate" che con la musica hanno poco a che fare.
È desolante vedere quanto si siano inariditi i Manowar. E queste iniziative sono la prova del fatto che i quattro non abbiano più idee, come giustamente rilevato nella recensione. Tra l'altro, mi sono chiesto come mai non abbiano deciso di incidere da capo anche Into Glory Ride, Hail to England e soprattutto Sign of the Hammer. A parte questo, dicevo, della nuova edizione di Battle Hymns e di quest'ultima, di Kings of Metal, non se ne sentiva affatto il bisogno. Personalmente avrei apprezzato una rimasterizzazione, magari con una grafica del booklet aggiornata e bonus tracks o demo versions, cioè quello che la quasi totalità delle metal bands propone al pubblico anni dopo che un album particolarmente amato e seminale è stato pubblicato. Ma i Manowar, si potrebbe obiettare, sono fatti così: autoreferenziali e 'autarchici' tanto da negare qualsiasi influenza ricevuta da altre band fondamentali del genere (come ho letto in alcune interviste). Come a dire: noi siamo i Manowar e siamo nati musicalmente per ispirazione divina, senza aver mai ascoltato nulla da altri. Ma va bene, fa parte della loro immagine. Finchè, però, questi atteggiamenti corrispondano a una proposta musicale quantomeno sincera (non dico che debba essere sempre di qualità eccelsa... il calo è fisiologico). E invece non è più così, nonostante loro continuino a dichiararlo. Purtroppo, dopo Louder than Hell (e a mio avviso anche Warriors of the World, almeno in parte) le idee non ci sono più. E allora perchè non prendersi una pausa, fare solo qualche live, e decidere il da farsi? Così si stanno solo rendendo ridicoli. I miei complimenti ad Alex per la recensione.
Davvero desolante: meglio come dici tu prendersi una pausa e lavorare su qualcosa di nuovo.
Davvero desolante: meglio come dici tu prendersi una pausa e lavorare su qualcosa di nuovo.
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