Robin Wright è un'attrice ormai in declino. No, non sto riferendomi alla Robin Wright protagonista di La Storia Fantastica, Moll Flanders e Forrest Gump tra i tanti, di recente rivista nella serie TV House of Cards.
No mi riferisco alla Robin Wright personaggio di The Congress, che poi è una estrapolazione della Robin Wright del nostro mondo.
Non è l'unica estrapolazione di questo singolare film di fantascienza diretto da Ari Folman (Valzer con Bashir), autore anche della sceneggiatura, liberamente ispirata al romanzo Il congresso di futurologia di Stanislaw Lem.
Come dicevo in esordio, in un futuro non molto lontano dal nostro presente, Robin Wright attrice in declino, non ha molte opportunità professionali.
Il mondo del cinema con l'avvento del digitale sta per cambiare. I vertici della major Miramount, nella persona del dirigente Jeff (un sempre efficace Danny Houston) convocano Robin e il suo agente Al (uno straordinario Harvey Keitel) con una proposta che ha dell'incredibile: chiedono infatti all'attrice di sottoporsi a un processo di digitalizzazione di ogni sua movenza, atteggiamento o postura, al fine di poter ricreare una sua versione digitale da inserire a proprio piacimento in futuri film. Oltre ad accettare un cospicuo vitalizio l'attrice dovrà inoltre ritirarsi completamente dalle scene, diventando una comune cittadina, mentre la sua immagine pubblica sarà affidata alla sua immutabile controparte elettronica, per sempre giovane.
Non senza qualche riluttanza l'attrice, dopo essersi consultata con i figli Sara (Sami Gayle) e Aaron (Kodi Smit-McPhee), dopo aver fissato alcuni paletti contrattuali grazie all'avvocato Steve (Michael Stahl-David), accetta di sottoporsi al processo.
Il contratto di cessione però non sarà eterno, bensì ventennale.
Durante i venti anni del contratto, nei limiti imposti da esso, le major utilizzeranno l'attrice anche in produzioni che prima non avrebbe mai accettato, senza i problemi che possono insorgere tra attori e registi sui set "reali".
Tutta la prima parte del film, dalla presentazione dei personaggi al processo di digitalizzazione, è girata in live-action.
Ci presenta un mondo ordinario di Robin molto complesso, con un difficile rapporto con la sua perduta fama, ma anche con i dilemmi rappresentati dal rapporto con i figli, e dal dramma della progressione della malattia degenerativa del figlio Aaron. Che poi sarà uno dei motivi per cui Robin accetterà il processo: in esso il suo medico, il Dr. Barker (Paul Giamatti) vedrà una possibilità di cura per il ragazzo, con una spiegazione su cui è meglio glissare qui per non anticipare veramente troppo.
Il primo atto, film nel film, è ben distinguibile alla parte successiva non solo perché queste è girata con la tecnica del rotoscope, ossia la sovrapposizione di disegni alla recitazione degli attori, ma anche perché ha una sua compiutezza stilistica, un rigore formale fatto di intensi scambi di battute tra i personaggi, con campi e controcampi alternati a movimenti orizzontali che tendono a stabilire le giuste distanze. La carrellata di presentazione di Robin, alla quale segue il dialogo con Al, è una scena emblematica in tal senso.
La scena clou della prima parte, affidata a uno strepitoso duetto attoriale tra Robin Wright e Harvey Keitel è pura poesia cinematografica.
Il registro cambia completamente nel secondo atto del film, quando ci viene mostrato il futuro venti anni dopo.
Il cambiamento dell’industria cinematografica si è riversato anche nella società. Così come le major hanno attinto agli avatar elettronici degli attori per fargli interpretare film a loro piacimento, ora mediante droghe è possibile costruire una realtà nella quale ogni individuo assume in sé le caratteristiche visive del proprio attore e personaggio preferito. Il congresso al quale Robin partecipa, anche per incontrare i vertici della Miramount per ridiscutere il suo contratto, è un evento al limite del virtuale, perché avviene non tra le persone con il loro aspetto reale, ma con quello dato loro dalla personalità virtuale. La cesura tra virtuale e reale è resa esplicita dall’uso del cartone animato, mediante la già citata tecnica del rotoscope.
Al congresso Robin farà delle scoperte sulla natura del mondo che la circonda, sul prossimo passo dell’applicazione delle tecnologie che ha contribuito a fare creare, e incontrerà il misterioso Dylan Truliner (in originale con la voce di Jon Hamm) che sembra conoscerla molto bene.
Robin ha perso di vista se stessa, i figli e la rotta della sua vita, privata forse della sua anima dopo la cessione del suo io digitale. Il precipitare degli eventi condurrà il personaggio e gli spettatori al terzo atto del film, dove tante domande troveranno risposte e la ricerca di Robin arriverà al suo capolinea.
La seconda parte d’animazione ricorda molto le allucinate atmosfere di Fuga dal mondo dei sogni, un film di Ralph Bakshi del 1992, che a sua volta presentava una versione ancora più cattiva e da incubo della già inquietante Cartoonia di Chi ha incastrato Roger Rabbit? di Robert Zemeckis (1988). È un inquietante mondo secondario perché è la diretta emanazione, in seguito all’effetto delle droghe, dei subconsci dei suoi abitanti, pieno, nel bene e nel male, di immagini che attingono alla cultura cinematografica, ma anche ad altre arti visive, come la pittura e il fumetto.
Spettacolo ultimo e supremo, creato direttemente dagli spettatori che, sulla base delle loro inclinazioni e vissuto, useranno il materiale a disposizione, fatto di intere esistenze digitalizzate, per creare una esistenza diversa da quella “reale”.
Anche in questo caso la scelta cinematografica diventa narrativa. L’uso del rotoscope ha il preciso scopo di mostrarci come i personaggi e l’ambiente siano “rivestiti” in modo da costruire una realtà alternativa. Anche quando vediamo “pupazzi” la loro postura umana ci aiuta a comprendere che, gratta gratta, la loro fisicità esiste ancora, tanto che a mio avviso, la vera conclusione del secondo atto è non tanto nel momento del passaggio a vent’anni dopo, bensì in quello in cui il velo cade, il rivestimento viene meno, e il ritorno al live action mostra la cruda realtà, dalla quale noi e la protagonista evaderemo per l’epilogo.
The Congress è un’opera impegnativa da seguire, non tanto per la sovrapposizione dei piani narrativi, ma anche perché in alcuni punti la sceneggiatura non sembra ben puntellata, più interessata forse all’evocazione che alla completezza della narrazione. Il momento in cui gli eventi precipitano è puro caos, voluto, ma disorientante.
Anche il suo ritmo lento, risolvibile forse tagliuzzando alcune ridondanze che in più punti sfiorano l’esercizio di stile, non aiuta a sostenere le oltre due ore.
Pur tuttavia la qualità del progetto generale lo rende un film di ottima fantascienza, di quella che usa l'aspetto visivo nel modo migliore, al servizio di una narrazione vera e non solo dell’effettaccio e del puro intrattenimento, sostenuto da ottimi attori, con una Robin Wright bravissima in testa a tutti per la ovvia centralità del suo personaggio.
Arrivate fino alla fine, non ve ne pentirete.
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