We all bear the scars.

Yes, we all fail in love.

We all cry in the dark;

get cut off before we start.

Scott Matthew, In the end

1. Mi presento

Immaginate una ragazza.

(Spero fin qui di non aver richiesto troppo alla vostra fantasia.)

Se l’avete immaginata alta, bionda, con gli occhi azzurri e con due poppe così, be’, allora siete maschi e (datemi retta) penso proprio che a questo punto dovreste chiudere il libro e lasciar perdere, tanto non capireste.

Allo stesso modo, se l’avete immaginata graziosa, leggiadra, o magari addirittura un’eterea 42, mi spiace per voi, ma siete del tutto fuori strada (e se pensate che il 42 si riferisca al numero di scarpe, allora siete davvero maschi e non solo non capite niente, ma neppure mi avete dato retta. Peggio per voi, poi non venite a lamentarvi con me).

Così come siete fuori strada se pensate che per una ragazza arrivare vergine a ventotto anni, sette mesi e undici giorni rappresenti in fondo una bella prova di carattere: potete anche raccontarvela, se preferite; ma non lo è, fidatevi.

Non con questo che dovreste immaginarvi un mostro, però.

Anzi, magari fossi un mostro: per lo meno, un mostro ha il pregio di farsi notare ovunque vada, e ciò dimostra che perfino nella bruttezza c’è qualche vantaggio.

No, niente di tutto questo: immaginate una ragazza scialba.

Anonima.

Per esempio: avete avuto venti compagni di classe ma, per quanti sforzi facciate, riuscite a ricordarne solo diciannove? La ventesima è lei. Una che non se la fila nessuno, neanche per inzuppare un po’ il biscotto nei sabato sera d’inverno, neppure quando il campionato è in riposo, ce l’avete presente?

Be’, quella sono io.

Non sono molto alta, non ho gli occhi azzurri, non sono bionda (una volta ho provato a tingermi i capelli da sola, in casa, ma il risultato faceva ancora più schifo del mio castano cacca naturale: è stata l’unica volta in cui sono stata contenta che nessuno mi notasse) e soprattutto non ho due poppe così. Non porto la 42, e nemmeno la 44, o la 46, e non mi fate andare oltre.

Dopo tre anni di macchinetta, i denti non sono più così storti com’erano da piccola; ma quelle rare volte che sorrido a qualcuno cerco sempre di ricordarmi di farlo a labbra chiuse, o almeno di mettere una mano davanti alla bocca.

(Quella della macchinetta merita di essere raccontata, perché riassume tutta la mia vita finora: come ho già scritto, quando ero ancora ragazzina ho sopportato quell’aggeggio infernale per quasi tre anni, senza grossi risultati; alla fine, al culmine di una nottata infarcita da sensi di colpa e lacrime di frustrazione, me la sono strappata via, l’ho gettata di nascosto nella spazzatura e me ne sono tornata a dormire. Morale: la mattina dopo i miei non se ne sono nemmeno accorti, o nel caso non hanno commentato. Se dovessi scommettere, punterei sulla prima ipotesi. E questa è la storia della mia vita, che vi piaccia oppure no.)

Eppure, in un certo senso, anch’io sono a mio modo speciale.

Mi chiamo Maria (altro bel nome anonimo, che sto provando a personalizzare in “Mary”, ma nessuno mi ha ancora seguito), ho ventotto anni, sette mesi e quindici giorni, non sono più vergine, ma adesso sono specialmente incazzata.

E se non l’avevate ancora capito, allora siete proprio maschi.