1. Sotto alle pietre del tempio crollato
Sotto il sole carogna, il porto era incandescente.
Dall'asfalto saliva il puzzo del catrame. Intorpidiva i sensi, faceva boccheggiare. Dava l'impressione di scivolare giù per la gola, come una patina maledetta, a permeare i polmoni con qualcosa di brutto.
La strada raccoglieva il sole malevolo e lo restituiva in ondate che facevano tremolare il paesaggio, il mare e le navi. Bestiacce di metallo che scaricavano ad Atene merci e turisti, poi se ne andavano di nuovo.
– Babis! – il vociare di Nestor sovrastò il motore della sua camionetta e mi fece fare il salto di un gatto davanti ai fanali. – Levati di mezzo, sfigato!
Mi spostai di lato e mio fratello passò oltre, col mezzo strapieno di carico che ondeggiava da una parte all'altra. Aprii la bocca per mandarlo a quel paese, ma faceva caldo e la richiusi.
Troppo tardi, gola seccata senza rimedio.
Alzai il il braccio libero al cielo e mostrai il dito medio.
Il sudore mi scivolò sulla schiena fino al culo e, quando presi un respiro, l'odore salmastro del mare si mischiò a quello del petrolio, delle lamiere delle navi bruciate dal sale.
La sirena del traghetto risuonò nell'aria come il barrito di un mostro marino, schiacciando la terra e ogni altro rumore. Zittì i motori e i chiacchiericci, il frinire lontano delle cicale aggrappate agli ulivi.
Il Pireo, in estate, era l'inferno.
Mi diedi una mossa e ripiegai verso il capannone della rimessa, tenendo lo scatolone sulla spalla. Lo scaricai all'ombra. Appena in tempo, prima che i turisti affollassero le banchine del porto di Atene.
Mi stirai la schiena, massaggiai la spalla provata dal peso. Dal mare arrivò un refolo di vento a rinfrescarmi il collo fradicio sotto i capelli della nuca. Niente male.
La rimessa aveva una scrivania nell'angolo e una vecchia sedia da giardino, mezza rotta. Un mobiletto con i documenti degli scali merci. Andai a frugare nei cassetti e ci rimasi secco.
Non c'era più nemmeno un grammo di roba!
Allungai di nuovo il braccio con il dito medio alzato, nella direzione in cui la camionetta di Nestor era scomparsa. Non era difficile immaginare chi avesse finito tutto il mio fumo buono. C'era invece un cartellino con la foto di mio fratello.
Agente Nestor Kavafis. Agente di che? Con la fatica che facevamo di giorno, andava mica a giocare di ruolo di sera?
Di malumore, frugai nella tasca dei jeans stinti, arraffai il pacchetto cominciato di Assos e me ne infilai in bocca una, mezza ritorta su se stessa.
Quando l'accesi, fu come respirare il catrame stesso del Pireo. Che schifo. Ne presi subito un'altra, familiare boccata.
Il mio turno finiva alle sette e mezza. Il tempo di un tramezzino con Nestor ed ero a casa. Clotilde giocava da sola in giardino, come al solito, seduta in mezzo ai fiori dell'oleandro e ai gigli selvatici della terra sabbiosa.
Quando sentì i miei passi sulla ghiaia, si illuminò.
– Babis! – mi si fece incontro nel vestitino bianco, come una bambina di buona famiglia. Tendendo le braccia in avanti, smarrita come un fantasma meridiano trattenuto tra i vivi troppo a lungo. – Babis dimmi! Che cosa hai visto oggi?
Mi chiuse le piccole braccia al collo e si fece sollevare.
– Non hai idea, Cloto, non ne hai idea!
– Dimmelo!
Clotilde mi batté il petto coi piccoli pugni, ridendo, finché non inventai per lei una giornata tutta nuova.
– Sotto il sole dorato, il porto era come un'isola di pace e tutt'intorno saliva il profumo degli oleandri, che intorpidiva i sensi.
– Buono, il profumo degli oleandri! – respirò a pieni polmoni, lei.
– Poi dall'acqua sono venuti i mostri marini. Enormi, Cloto, squassavano le onde, con la pelle verde e argentata bruciata dal sale. Hanno aperto le bocche mandando le loro canzoni mostruose al cielo, schiacciando il frinire lontano delle cicale aggrappate agli ulivi.
Clotilde spalancò gli occhi ciechi, la pupilla fissa a un punto imprecisato dietro le mie spalle.
Sapevo che immaginava tutto quanto le dicevo. E ci credeva davvero, che avessi incontrato i mostri del mare al Pireo. A suo modo, se si pensava alle grosse navi in attracco, non era forse la verità?
Clotilde dischiuse le labbra nella meraviglia e mi toccò la guancia, come per constatare se fossi sorpreso anch'io.
Finsi di esserlo, per lei.
Non avevo idea che di lì a un paio di giorni non avrei avuto bisogno di fingere affatto.
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