Tarquinio coltivava fantasmi nel podere dietro casa. Era la specialità di famiglia sin dai tempi del bisnonno.
Il vecchio Sergio cresceva fate nella serra, la signora Luisa allevava folletti alati in cantina. Persino Donato, il barbiere del paese, chiusa la bottega correva a casa e, nonostante le proteste della moglie, si infilava in garage a completare le sue navi fantasma.
A Montestrano sul Firone non erano attività insolite. Tutti si occupavano di cose del genere.
Parecchia gente faceva affari con i paesani. Inglesi e irlandesi per lo più, desiderosi di avere in casa un fantasma o di veder passeggiare una fata in giardino o saltellare folletti in giro, adoravano i prodotti di Montestrano. Scesi dall’aereo e noleggiata un’auto, seguivano le indicazioni ricevute per posta. Non certo elettronica, perché ai locali queste cose non piacevano. Molto meglio fogli di carta ingiallita, scritti a mano e spediti in buste spiegazzate con un mucchio di francobolli.
Entusiasti, risalivano le colline seguendo il corso del Firone e una serie di strade via via sempre più tortuose e malmesse, finché, tagliata l’ultima curva, non scorgevano i tetti e i campanili di Montestrano, appiccicati in cima a una altura come le casette in legno e resina dei vecchi presepi.
Laura Tinti consultò per l’ennesima volta la carta stradale, aperta sul cruscotto, e sospirò preoccupata. Il navigatore le era stato di aiuto sino all’ultimo paese con un nome sensato ma, una volta abbandonata la via principale per quel viottolo sconnesso, lo schermo aveva iniziato a lampeggiare impaurito. Ovvio, pensò, contiene solo luoghi conosciuti.
Non rimaneva che seguire i rari cartelli blu a forma di freccia, inclinati e macchiati di ruggine. Ogni tanto un incrocio la mandava nella direzione sbagliata e solo il corso del Firone, un nastro azzurro incassato tra le tonde colline verdi, le faceva da guida.
Era iniziato tutto il mese scorso, quando era morta la nonna. Laura e i fratelli avevano liberato l’appartamento, facendosi carico ognuno di una parte del mobilio. Lei aveva preso il comò. Le ricordava l’infanzia quando, uscita da scuola, giocava con la bigiotteria sottratta dall’ultimo cassetto.
Il quaderno era saltato fuori mentre ripuliva il mobile. Poche pagine, scritte con una calligrafia ordinata dalle delicate sbavature di inchiostro, e una mappa disegnata in modo quasi infantile, come quelle che fanno i bambini quando giocano ai pirati.
Fu così che venne a sapere di Montestrano. E del suo commercio. Impossibile resistere. Adorava fantasmi, fate e creature ultraterrene. Doveva aver ereditato la passione proprio dalla nonna, una vera esperta in materia.
Aveva preso l’auto e si era messa in cerca dello strano paese.
Parcheggiò nella piazza, davanti al piccolo palazzo comunale. Il sole illuminava le pareti in mattoni e le rondini disegnavano cerchi nel cielo azzurro. Non c’era nessuno in giro, così si diresse verso l’unico negozio, proprio sotto i portici. L’insegna in ferro battuto a forma di gallo la salutò, oscillando con un lieve cigolio sopra la vetrina. Lunghe tendine di lino impedivano la vista dell’interno.
“Emporio dei Sogni”. Il nome la incuriosì. Entrò, accolta da una fresca penombra. L’aria sapeva di incenso e la poca luce arrivava da un lampadario di vetro verde. Una parete era occupata da gabbie in vimini, appese al soffitto o poggiate sul pavimento, l’altra da una grande libreria zeppa di volumi, soprammobili e porta fotografie. Una ragazza, con un vestito a fiori, il viso tondo e un taglio di capelli antiquato, la salutò da dietro un bancone ricoperto di modellini in legno, piatti in ceramica, rotoli di pergamena e una serie di ampolle colorate.
— Salve — esordì Laura con un timido cenno della mano.
La ragazza le sorrise. — Buongiorno. E benvenuta. Io sono Esther. Appena arrivata? E’ qui per vedere qualcosa in particolare?
Laura esitò. — Non saprei… cosa vendete, di preciso?
— Oh, abbiamo un bel campionario — rispose lei allegra, indicando le pareti. — Amuleti, polveri dorate, profumi ammaliatori, stoviglie magiche e spezie di bosco. Se invece intende portarsi via una bestiola — fece due passi verso le gabbie. — Un folletto alato? Al mattino cinguettano in maniera divina. O forse una libellula fatata? Sono ottime compagne e si illuminano sempre quando sta per piovere. Se invece desidera qualcosa di più grande…
— No, no — Laura la fermò. Si era immaginata qualcosa di strano, ma non fino a qual punto. Stava per chiedere spiegazione quando udì una voce alle sue spalle.
— Amica mia! Sei tornata. Era ora, perdindirindina. Ma lo sai quanti anni sono passati?
Un’anziana signora, i capelli grigio azzurro freschi di piega e il volto ovale da bambina pieno di rughe, era uscita dal retro e la stava salutando con un gesto della mano. Illuminò il locale con la sua calda simpatia.
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