Blackhat di Michael Mann è la storia della chiamata alle armi di un eroe riluttante, un ex hacker in galera, Nick Hathaway (Chris Hemsworth) che, come è capitato spesso in realtà, viene chiamato dal suo ex compagno di studi Chen Dawai (Leehom Wang), ufficiale della polizia cinese, per dare la caccia a un pericoloso hacker che ha violato i server di una centrale nucleare cinese, quasi provocando un disastro ambientale.
La caccia lo porterà a un confronto anche fisico, non solo informatico con l'hacker, a capo di una vera e propria banda di pericolosi tagliagole, attraverso vari paesi del mondo, da Chicago a Los Angeles, e poi a Hong Kong, Giacarta e Malesia.
In realtà della partita è anche l'FBI, nella persona dell'agente Carol Barrett (Viola Davis), e Hathaway si trova quindi, in cambio del condono della sua pena, in una missione cino/americana nella quale sono imbarcati anche un il Marshall degli Stati Uniti Mark Jessup (Holt McCallany) e la bella sorella di Dawai, Lien (Wei Tang) come abile sistemista di rete.
Fosse vero. Già perché è questa una delle prime falle nella sceneggiatura di Morgan Davis Foehl. Se all'inizio del film sembra promettere per Lien un ruolo interessante e attivo, nel corso della vicenda diventa chiaro che stia lì solo come "interesse amoroso" del protagonista e l'unica volta che le sue peculiarità diventano necessarie è quando sbatte le ciglia e si mostra in un attillato abito bianco, per convincere una guardia a inserire nel suo pc una chiavetta usb con un programma che consentirà al protagonista di violare un server.
Strumentale, ma emblematica del fatto che questa sia una sceneggiatura che non fosse per l'accenno al 9/11 e i telefoni cellulari, potrebbe essere ambientata negli anni '80 (con l'Unione Sovietica nel ruolo che adesso ha la Cina, di potenza rivale degli USA), è la scena d'amore tra Nick e Lien, che arriva proprio dove arrivava all'epoca, quando, ancora pieni dell'adrenalina di uno scampato pericolo, protagonista maschile e femminile, si guardano e tra loro scoppia la passione, per la serie "facciamolo ora, domani potrebbe essere troppo tardi." Un uso strumentale di un atto che potrebbe essere utile a raccontare dei personaggi, a farli parlare tra loro con il linguaggio del corpo, qui ridotta a mera decorazione.
Il piano del cattivo è poi quanto di più inutilmente inutile, complicato e ridondante si sia mai visto nella storia del cinema. Per fortuna lo stile asciutto del regista ci risparmia gli spiegoni dell'antagonista, che rimane nell'ombra quasi fino alla fine, diluendoli nella scoperta graduale da parte di Nick e il suo gruppo.
Se la scelta di Chris Hemsworth per un ruolo che dovrebbe essere più di cervello che azione può suscitare perplessità, la sceneggiatura in tal senso cerca di risolvere il dubbio, con un background che spieghi anche le abilità atletiche e di combattimento del personaggio. Chi ha detto che gli hacker siano solo dei nerd sovrappeso con gli occhiali?
Quello che però non gli fa reggere la prova della credibilità riguarda più che altro le sue limitate capacità espressive.
Il resto del cast è nella norma di un film del genere, con dei veterani come Viola Davis e Holt McCallany che compiono il ruolo con diligenza.
La sceneggiatura è prevedibile fino a far credere di possedere poteri di divinazione. Scritta didascalicamente fotocopiando la scaletta del Vogler, mettendo i momenti di tensione all'esatto minuto/secondo in cui uno spettatore un po' sgamato se li può aspettare.
Il film è invece girato bene, benissimo.
Anni '80, nel senso buono, sono le sparatorie, per cui dimenticatevi il bullet time. Nonostante l'ambientazione asiatica del film, pensata probabilmente per aggredire quei mercati ricchi e ancora relativamente vergini per Hollywood, il linguaggio cinematografico rimane hollywoodiano, anzi rimane la versione di Michael Mann di quel linguaggio. Un punto a favore.
Blackhat ha tanti difetti, ma almeno un pregio: Michael Mann non rinnega se stesso davanti alle mode.
Il regista che diresse il debutto cinematografico di Hannibal Lecter (Manhunter - Frammenti di un omicidio, 1986), e poi i pregevoli Heat - La Sfida (1995), Insider - Dietro la verità (1999), che è stato l'artefice della serie TV Miami Vice (dirigendone, caso unico, anche la trasposizione cinematografica nel 2006), non rinnega il suo stile registico, fatto di luce sgranata, primi e primissimi piani, che diventa una narrazione cinematografica fatta di volti, di dettagli (anche microscopici, vedendo l'irreale ma suggestivo inizio del film, con la drammatizzazione cinematografica dell'attacco hacker). E non dimentica i suoi duelli allo spasimo, i momenti in cui la tensione si accumula e poi si scatena, trovando la sua risoluzione.
Alla fine è un peccato, se scopo commerciale del film era proporsi in Asia, con un campione di lungo corso come Mann, farlo con un film mal riuscito dona al tutto una patina di tristezza. Come vedere un campione sportivo finire la sua carriera in un paese dove il suo sport è poco praticato.
Tristezza e noia.
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