Avevo buttato nel cesso l'occasione della vita e, invece di guarire la ferita, il tempo ci versava sopra alcol a novanta gradi.
Rimisi il cellulare nella tasca dei bermuda e riportai lo sguardo sulla strada finalmente sgombra.
* * *
Purtroppo la serata andò pure peggio. Titti mi fece aspettare all'Angolo del Paradiso per tre quarti d'ora, prima di raggiungermi al tavolo con un top striminzito e un broncio grosso quanto la pizzeria. Niente baci, solo un laconico “Ciao”. Immaginai che avesse le sue cose.
Dopo un po' che i suoi sbuffi mi appannavano le lenti, sbottai un: – Ma insomma! Cos'hai stasera?
– Oh, finalmente sua maestà ha terminato di stilare l'elenco dei suoi problemi – replicò acida. – Niente, volevo presentarti il mio nuovo amico.
E srotolò la lingua a mo' di boccaccia.
– Ti sei fatta il piercing? Ma ti ho detto che non mi piace.
– Embè? Tanto non ci avevi manco fatto caso. Mi sono slogata la mandibola a furia di aprire la bocca, ma tu avevi sempre il muso ficcato nel piatto, e questo la dice lunga su quanto tieni a me. Comunque ti ricordo che non sono una tua proprietà. Difatti, già che c'ero, mi sono fatta applicare un lucchetto qui – specificò sibillina puntando il dito sul suo grembo.
– Lì? Sull'ombelico?
– Più giù – canticchiò.
– No, non sulla farfallina.
– Invece sì. D'ora in poi, se vorrai entrare dovrai chiedermi il permesso.
– Senti, ho avuto una giornata pesante. Non mi va di discutere di queste stronzate. Domani ti accompagno dove te l'hanno messo e te lo fai togliere.
– Non se ne parla, Gianlu. Domani sarò occupata a tingermi i capelli.
– Perché? Biondi sono così belli.
– Vuoi mettere col fucsia?
– Che? E io cosa dovrei fare? Subire?
– Ah, sei bravo a fare la vittima. Guardiamoci in faccia: a te interessano esclusivamente i cazzi tuoi. Per la precisione, il tuo cazzo. Ti ricordi di me solo quando ti prudono le palle, ma per il resto mi consideri meno di un sex toy: vuoi decidere tu quante volte, quando devo godere, e vuoi scegliere le posizioni, i posti dove farlo, la mia lingerie... Be' sai che ti dico? Comprati una bambola gonfiabile. Per il modo in cui tratti le ragazze, questo ti meriti.
– Ma dai, ti amo, quante volte devo ripeterlo?
– È questo il problema. Tu non mi ami. Mi comandi. Stasera, per esempio: ti costava tanto portarmi al concerto della Pausini?
– Urla troppo per le mie orecchie.
– Io però mi sono sorbita i grugniti di Vasco per anni, anche se le sue canzoni mi fanno vomitare.
– Va bene, magari la prossima volta.
– La prossima volta, la prossima volta. Dici sempre così. Sai che c'è? Niente prossime volte.
– Cosa stai cercando di dirmi, Titti?
– Che ti mollo.
– No, aspetta, fammi parlare.
– Hai parlato abbastanza, adesso è il mio turno: in due anni di fidanzamento non c'è stata una sola sera in cui non mi sia ritrovata ad ascoltare i tuoi mugugni. Se poco poco cercavo di spostare l'attenzione su di me, sbottavi, come hai fatto poco fa. La vita ti sfugge di mano e allora ti rifai sulla tua ragazza, questa è la verità. All'inizio ti ho assecondato perché ti amavo, mi dicevo che prima o poi ti saresti accorto che ho un cervello e un cuore anch'io, ma non è successo. Non mi hai mai chiesto com'era andata la giornata o quali fossero i miei sogni. Amare significa ascoltare l'altro. Io l'ho fatto. Invece tu sai solo lamentarti: delle aziende che ti scartano, dei clienti che non ti pagano, dei debiti che si accumulano, del conto sempre in rosso, dei... – Scosse la testa, poi mi fissò severa. – Non è colpa mia se fai un lavoro del cazzo, Gianlu.
– No, infatti, è solo colpa di mia madre – borbottai abbassando gli occhi, ma lei mi rubò la palla e se la portò per tutto il campo.
– Eccerto, perché se quella zoccola non se ne fosse andata di casa, tuo padre non sarebbe diventato un morto in piedi, la banca non l’avrebbe licenziato e voi due non sareste finiti a vivere in un buco ai Quartieri Spagnoli, tu non saresti rimasto un tappo e i bulli di scuola non ti avrebbero mai spaccato la faccia, pensa. Magari avresti pure continuato gli studi e ora starei mandando a fanculo un premio Nobel per la fisica, come no. Lo vedi? Conosco la tiritera a memoria, ormai. Mi spiace, Gianlu, non sarò più la pattumiera dei tuoi casini esistenziali. Ho tante ferite anch'io, e le ho sempre dovute ricucire senza il tuo sostegno.
Un bip del suo cellulare interruppe lo sfogo.
– Mio fratello è qui fuori con la macchina – disse alzandosi. – Non ti scomodare a telefonarmi. È finita.
– Te ne vai così, senza darmi una possibilità?
– Posso darti solo questo – chiosò mesta.
Si sfilò dal collo la catenina che le avevo regalato a Natale, quella comprata sulla bancarella a Port'Alba, e me la buttò nel piatto, fra i resti della Quattro Stagioni.
– Ti auguro migliore fortuna con la prossima schiava – mormorò prima di voltare le spalle.
Migliore fortuna.
I miei occhi scattarono su di lei, ma la bocca non emise alcun suono, mentre i suoi lunghi riccioli biondi che si aprivano in due sul sedere svolazzavano oltre la porta del locale.
Raccolsi la catenina dal sugo e la strinsi nel pugno con rabbia, le nocche pallide come cera.
Quando mi portarono il conto, ero ancora freezato in quella posizione.
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