La tomba delle lucciole, di Isao Takahata, uscì nei cinema giapponesi nel 1988, in concomitanza con Il mio vicino Totoro di Hayao Miyazaki. Una scommessa dei produttori cinematografici del tempo. Erano proiettati con l’acquisto di un unico biglietto, e ogni volta invertendo l’ordine di proiezione.
E si capiva benissimo quale film fosse stato visto per primo, ci raccontano le cronache. Eppure, La tomba delle lucciole ha vinto numerosi premi, in Giappone e nel mondo, tra cui il Premio per i diritti dei bambini.
È difficile dire che sia “un bel film”. Al tempo stesso è difficile affermare il contrario. Gli unici aggettivi che al momento sembrano utili a rappresentarlo sono intenso, e altrettanto intensamente, pesante. Un film imperdibile, in ogni caso. Un film che merita di essere visto, almeno una volta nella vita, e non certo per autolesionismo.
In breve è il racconto in flashback di due bambini, fratello e sorellina, che rimasti orfani non sopravvivono alla Seconda Guerra Mondiale. È una storia triste, cruda e anche crudele. Realista, drammaticamente realista.
Tuttavia, come un ossimoro, è raccontata con delicatezza e poesia, con un sentimento vivo e pieno, eppure anche con profondo distacco per non giudicare ma solo raccontare. È una storia, un documentario, un racconto quasi asettico, ma al tempo stesso un monito alle generazioni future, senza mettersi in cattedra ma solo rappresentandolo. Come sempre riesce a fare Isao Takahata, il regista dell’animazione sur-realista, grazie anche all'art director Yoshifumi Kondō.
L’anima poetica, meno scanzonata, più greve dello Studio Ghibli racconta, come fece anche Akiyuki Nosaka (autore del romanzo omonimo, semiautobiografico, da cui è tratto il film, nonché accreditato al soggetto dello stesso), dando un volto ai due protagonisti, i piccoli Seita e Setsuko, un volto alla guerra, un volto a un Giappone che con le unghie e coi denti cerca di sopravvivere ai bombardamenti, alla devastazione, alla fame terribile, all’infanzia, alla morte.
Per la nostra mentalità occidentale resterà alla fine della proiezione la domanda da un milione di dollari. Chi è la vittima di questo film? Chi è il vero carnefice? E come può non esserci o, eventualmente esserci, consapevolezza in tutto questo? E al tempo stesso: in un periodo storico in cui essere bambini aveva una brevissima durata perché gli orrori e la crudezza della guerra costringevano a crescere in fretta, come si può spiegare ai bambini come sopravvivere? Glielo si può sempre insegnare?
Takahata non dà un proprio giudizio esplicito. Si limita a rappresentare e lascia libero lo spettatore.
Quest’ultimo potrà indignarsi, sentirsi inchiodato alla poltrona e seguire con un senso di impotenza, di rabbia, di amarezza, di fastidio, di dolore.
Non è un film divertente, la gioia dei bambini andrà man mano perdendosi, lasciando spazio al dramma, al senso di smarrimento. Tuttavia le lucciole continueranno a venirci in soccorso, a tracciare un piccolo sentiero di luce, a portare come un senso di speranza, a illuminare il ricordo di tanta infanzia andata tristemente distrutta.
Relativamente al nuovo adattamento sembrerebbe che il lavoro di “affinatura” di Gualtiero Cannarsi sia stato incentrato sul togliere ogni senso di drammaticità o pateticismo. Nessuna recitazione strappalacrime, a detta di Shīto stesso, con un risultato piuttosto convincente da parte del cast di doppiatori. Un lavoro più fedele possibile all’originale e asciutto, per non dire asettico, come in effetti è stato, con come al solito quei termini e quelle espressioni stridenti che si percepiscono e che ormai lasciano sospirare “è Cannarsi”.
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