Parlare di Sherlock – L'abominevole sposa senza dire niente dei suoi meccanismi narrativi è impossibile. Non dico di non raccontarvi la storia. Quello riesco a farlo.
Se siete degli integralisti del no-spoiler vi dico solo che l'episodio merita la visione al cinema, perché per tecniche di ripresa e messa in scena siamo di fronte a un prodotto che nulla ha da invidiare a quelli cinematografici. A questo punto finché non lo vedrete, l'articolo di lancio vi basta, e dovete tornare qui dopo averlo visto. Quello che potrei dirvi sarebbe troppo, per alcuni di voi.
Mark Gatiss e Steven Moffat vi hanno, ancora una volta, ingannati.
Sherlock – L'abominevole sposa non è un divertissement. Non è una divagazione sul tema. Se da fan sfegatati vi siete chiesti come mai i due non abbiano dato seguito alle domande lasciate aperte dalla terza stagione di Sherlock e abbiano prodotto "questa cosa", siete caduti nell'inganno anche voi.
C'è da dire che i primi sentori, al cinema, sono arrivati dallo speciale proiettato prima dell'episodio, nel quale Moffat ci spiega con quale dovizia di particolari sia stato riprodotto lo studio di Sherlock, e di come questo in realtà sia la versione ottocentesca di quello della serie moderna.
A questo punto chi ancora pensava che Moffat e Gatiss volessero immergere gli spettatori nel "canone", demone che tormenta ogni scrittore che si sia mai cimentato con apocrifi sherlockiani, avrebbe dovuto cominciare a insospettirsi.
I sospetti aumentano con l'incipit, che è la versione ambientata nel XIX secolo di quello del primo episodio, così come la sigla.
Ma quando i personaggi cominciano a parlare, a interagire, quando comincia a essere tessuta la trama, diventa chiaro che siamo davanti a quello che in linguaggio da videogiochi è il "Mod" vittoriano di Sherlock.
Tutto è uguale, ma le texture sono retrò. I personaggi non parlano e non si esprimono come personaggi di quell'epoca. Ma come moderni.
E se fosse finita qui avremmo gridato all'esercizio di stile, chiedendoci ancora perché a questo punto rinunciare all'ambientazione moderna.
Il twist arriva giusto un attimo prima che questa domanda diventi assordante nel nostro cervello.
Quando i prestigiatori rivelano "il trucco", il concetto del Palazzo Mentale, la elaborata costruzione di Sherlock, quello che conosciamo noi, intenzionato a risolvere l'enigma che ancora ci assilla: Moriartry è morto o no?
Vi devo anche avvisare. Mi dispiace ma anche stavolta la questione The Reichenbach Fall, ossia come Moffat e Gatiss abbiano tirato fuori dagli impicci Sherlock della "Morte" non avrà risposta. I due la eludono come bisce, mettendoci nel crogiuolo anche pezzi di canone, come l'ottocentesco, quello sì, confronto tra Sherlock e la sua nemesi proprio alle famose cascate.
Moffat e Gatiss non rinunciano inoltre a mettere nel calderone suggestioni horror gotiche ottocentesche, piani paralleli di percezione che ricordano Philip K. Dick e il racconto Ricordiamo per voi che ispirò Total Recall, per non parlare dell'uso massiccio di droghe, che però in questo caso è nel "canone" di Conan Doyle.
Dickiano è però il loro uso per aprire porte narrative. Ricordi, frasi ed eventi, viaggiano a un certo punto da un piano all'altro, quasi senza soluzione di continuità. I piani onirici non diventano per fortuna solo dei meri espedienti per giustificare quelle che appaiono in un un primo istante come incongruenze, bensì veri e propri piani narrativi, la cui percezione diventa fondamentale per orientarsi. Se state pensando a Inception, siete vicini a quello che intendo.
I passaggi, va detto perché di racconto per immagini parliamo, non solo solo salti narrativi, ma anche gestiti con puntelli visivi, dissolvenze evocative e un ottimo montaggio.
Rispetto al già citato Inception abbiamo un solo piano onirico, o presunto tale, ma c'è in comune la percezione di diverse velocità di scorrimento del tempo, anche se il piano onirico non appare visionario.
Questo perché la mente logica di Sherlock non cede neanche in sogno. Questo perché il twist finale vuole essere ancora più spiazzante.
Chi ha sognato chi? Lo Sherlock del XXI secolo sogna lo Sherlock del XIX che a sua volta sogna quello del XXI? Questo vuole essere il cliffhanger di un episodio che a questo punto ci lascia ancora più impazienti di vedere la prossima stagione, della quale è ufficialmente, a questo punto si può dire, un prologo.
Come avete già fatto in sala, non andate via!
Se siete rimasti qui, come in sala, è per il commento allo speciale condotto da Mark Gatiss.
Una serie di interviste al cast, da Benedict Cumberbatch a Martin Freeman, senza dimenticare Andrew Scott (Moriatry) e la bravissima Una Stubbs (Mrs. Hudson) e via via gli altri, per finire con Mark Gatiss intervistato da Moffat.
Quello che emerge dalle interviste non sono i soliti convenevoli, le solite pacche sulle spalle che tutti danno a tutti. Martin Freeman per esempio dimostra tutta la sua intelligenza quando spiega il suo approccio alla recitazione del personaggio in relazione al Watson di Nigel Bruce, nei film in cui Sherlock Holmes era interpretato da Basil Rathbone.
Uno speciale immancabile per chi, con i contenuti speciali, vuole capire il dietro le quinte, i meccanismi che determinano il funzionamento di una produzione.
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