Arriva in Italia, dopo essere passato per il Trieste Science+Fiction Frankenstein, nella versione ambientata nella moderna Los Angeles scritta e diretta da Bernard Rose (Candyman, Il violinista del Diavolo).
La storia è fin troppo nota. Il tentativo di Rose è farcela vivere dal punto di vista del cosiddetto "mostro". Primi, primissimi piani, dettagli ravvicinatissimi, ci restituiscono il punto di vista della creatura, sin dal primo momento in cui apre gli occhi, catapultandoci nella storia senza l'antefatto.
Sarà poi tramite l'interazione della creatura senza nome (Xavier Samuel) con l'ambiente circostante, in particolare con il Dr. Viktor Frankenstein (Danny Huston) e la moglie Marie (Carrie-Ann Moss) che cominceremo a comprendere, insieme al giovane l'ambiente che lo circonda, compiendo la sua stessa esplorazione, guardando quello che guarda lui, o in ogni caso ponendoci in una prospettiva così ravvicinata da non essere mai veramente lontani anche dal suo sentimento.
Almeno per la prima mezz'ora il gioco regge. Quando la vicenda amplia gli orizzonti, con la fuga del mostro dal laboratorio dei suoi creatori, e comincia la sua esplorazione del circondario, con episodi che ripropongono in chiave moderna passaggi molto noti della vicenda originale, emergono contraddizioni, incongruenze, banalità che non si giustificano con la percezione distorta della realtà da parte della creatura.
Passaggi che potevano rendere tutto il dramma di una creatura artificiale che, per citare Blade Runner, ha poco tempo per imparare nozioni che noi diamo per scontate
e per cercare un posto in un mondo ostile, non riescono a essere efficaci, provocando fin troppo spesso risate involontarie.
Nonostante le tante ottime intuizioni visive, il film naufraga implodendo su stesso, facendo affondare ogni velleità di sospensione dell'incredulità, lasciando in bocca l'amaro sapore delle occasioni perdute.
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