Alla sempre legittima domanda: “c’era bisogno di questa nuova versione di Frankenstein?
”, non c’è alcuna indecisione da parte di chi scrive, assolutamente no. Che sia pratica comune nella storia del cinema l’attualizzazione di grandi romanzi contemporanei che hanno generato veri e propri miti moderni, primi fra tutti Dracula e Frankenstein, è cosa ben risaputa. Dagli horror dell’Universal ai più laccati mostri contemporanei è tutto un susseguirsi di riproposizioni del mostro come metafora delle inquietudini di questo o quel decennio. Dal puro intrattenimento orrorifico dei film di serie B, ai quesiti morali di prometeica memoria dove la creatura o il creatore diventano metafora della condizione moderna, o ancora le ultime derive del genere con cross over per lo più imbarazzanti alla I, Frankenstein.
Questa versione di Paul McGuigan, ricordato per lo più per Slevin – Patto criminale, ha tre obiettivi: l’intrattenimento tout court, la proposta di una moralina che dica qualcosa e la ricerca frenetica di proporre una storia che ormai tutti conoscono con una veste inedita. Il film riesce a non centrarne nemmeno uno.
Invece di proporre il punto di vista del solito dottore che si crede Dio, la vicenda parte da uno storpio senza nome che fa il clown in un circo ma ha incredibili doti da chirurgo autodidatta (sic). Dopo averlo visto all’opera Victor Frankenstein lo libera, gli toglie la gobba che in realtà è un ascesso (sic, sic), gli infila un bustino e lo fa camminare dritto.
Dopo una doccia e un precario taglio di capelli ecco arrivare il solito inespressivo e monocorde Daniel Radcliffe trasformato in Igor e diventato assistente del dottore, e James McAvoy che pare fare le prove generali per interpretare un nuovo super cattivo in un film Marvel, dopo aver abbandonato i panni del professor Xavier. Non aiuta neppure la presenza di Andrew Scott, che dal Moriarty nello Sherlock con Cumberbatch è passato direttamente al poliziotto timorato di Dio, disposto a tutto per fermare i mostruosi esperimenti del dottore. È il suo personaggio a farsi portatore della moralina che dovrebbe veicolare il messaggio del film: nessuno può diventare Dio, chiunque ci provi è destinato a fallire.
Se è evidente che Victor: La storia segreta del Dottor Frankenstein non è un film fatto per filosofi, ci si aspetterebbe almeno un po’ d’intrattenimento vero, perché i soli rallenty, le esplosioni e le urla dei pazzi psicopatici, non bastano per uscire dalla sala soddisfatti.
Quindi ci si chiede perché mai riportare in scena Frankenstein in questo modo, senza un briciolo, non dico di originalità, ma neppure di sano divertimento casereccio? La sentenza agli incassi in sala.
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