Nick accompagna suo fratello in Colombia nel tentativo di rendere reale il loro sogno: vivere nel paese sudamericano, visto come una sorta di paradiso in terra. Un bar sulla spiaggia, le onde per fare surf, una vita tranquilla. Non è molto quello che i due fratelli cercano, ma la loro visione del mondo e della Colombia è di certo ammantata di una buona quantità di romanticismo.
Nonostante qualche brutto incontro, però, le cose sembrano andare esattamente come speravano, anzi addirittura meglio. Nick incontra infatti Maria, una ragazza dolcissima di cui si innamora ricambiato. Le cose non potrebbero andare meglio, anche perché lo zio di Maria, un certo Pablo Escobar, è un uomo molto ricco e accoglie i due giovani sotto la sua ala protettrice.
Ma come ha fatto a fare tanti soldi lo zio? La risposta ce la dà Maria in maniera del tutto innocente: Esportando Cocaina. Qui in Colombia mastichiamo foglie di coca da sempre, è un po’ come se esportasse un prodotto nazionale.
Col passare del tempo e con il progressivo avvicinarsi di Nick ad Escobar, del suo entrare nella cerchia di quelli di cui ci si può fidare, la percezione che abbiamo dello zio cambia radicalmente. Assistiamo a uno scollamento tra l’immagine “pubblica” che tutti vedono (e in alcuni casi addirittura adorano per la tanta beneficenza che fa) e quella privata. Da una persona solare, allegra, amante della famiglia, impegnata nel sociale, si trasforma di una specie di ombra inquietante che tutto ricopre e tutto controlla, sempre presente nella loro vita. Anche quando non si trova lì con loro nella stanza, lui c’è, perché stanno parlando di lui o stanno facendo qualcosa per lui.
Il vortice in cui Nick sembra essere risucchiato sembra non avere fine e trascinarlo sempre più in basso, fino al drammatico epilogo del film.
Basato su fatti reali e su parti romanzate, Escobar: Paradise Lost sorprende per essere il primo film scritto e diretto da Andrea Di Stefano. Sorprende per la maturità della sceneggiatura e per la regia. L’impressione è che il lavoro dietro a questo film sia stato molto lungo e meticoloso, sia nella ricerca sui fatti e sul personaggio di Escobar, sia nella scrittura e nello studio di come realizzare il film, proprio per non lasciare nulla al caso. L’inizio lento, rilassato, con qualche salto temporale, come a voler piazzare le pedine nel punto giusto, crea la giusta atmosfera per il crescendo che conduce al climax del finale.
Se regia e scrittura sono buone, ancor meglio si può dire della prova di Benicio del Toro (Sicario, Che, Traffic, 21 Grammi), che si può dire sostenga il film praticamente da solo. Pur non essendo il protagonista, in realtà, fin dal primo momento in cui entra in scena è come se fosse sempre presente. Tutto ruota attorno a lui, ai rapporti che ogni personaggio ha con lui, a quello che fa o fa fare agli altri. La trasformazione della percezione che noi telespettatori (così come Nick) abbiamo di Pablo Escobar è tutto merito della sua recitazione. Se all’inizio ci strappa qualche sorriso e persino qualche risata contro la nostra volontà, a un certo punto ci si sorprende ad avere un brivido ogni volta che viene inquadrato, come se non sapessimo cosa doverci aspettare da lui. Processo reso ancora più inquietante dal fatto che avviene in maniera sottile, a tal punto che non sapremmo dire quando ha iniziato a farci paura.
Purtroppo lo stesso non si può dire di Josh Hutcherson (Hunger Games), la cui recitazione rimane piuttosto legnosa e prevedibile. La differenza rispetto ad alcuni dei blockbuster a cui ha partecipato sembra evidente, quantomeno per l’impegno, ma il risultato non differisce poi troppo. Se Benicio del Toro si trasforma poco per volta dallo Zio Pablo nel trafficante e pluriomicida Escobar, lo stesso non si può dire del grado di consapevolezza di Nick. Da una inquadratura all’altra si passa dal sorriso un po’ ebete alla piega storta della bocca che ci accompagnerà fino alla fine della pellicola.
Piacevole sorpresa, invece, Claudia Traisac, che interpreta il terzo personaggio più importante del film: Maria. L’attrice spagnola riesce ad essere simpatica, leggera, innocente finché la sceneggiatura lo richiede, per poi, a sua volta, crescere in consapevolezza. Al contrario di altri, però, non si lascia andare a una sorta di rassegnata disperazione, di accettazione di non poter fare nulla di fronte a qualcosa di così grande e potente come Escobar (che a un certo punto assume dimensioni di una vera forza della natura, come se opporsi a lui fosse come cercare di fermare la marea o deviare un temporale), ma, forse forte del suo legame di parentela, cerca di reagire con le limitate forze che ha.
Escobar: Paradise Lost, è un bel film, con una regia e una sceneggiatura mature e solide, e con una maiuscola prova d’attore di Benicio del Toro. Non è un bio-pic, anche se potrebbe sembrarlo a tratti, piuttosto lo si potrebbe paragonare, pur con tutti i distinguo del caso, a Il Padrino, nel suo mostrare non tanto le vicende pubbliche di un personaggio come Escobar, quanto il modo in cui lo zio Pablo era visto e vissuto all’interno della famiglia. Forse, per la sua drammaticità, non è un film che spinge a essere rivisto in continuazione, ma almeno una volta merita di essere visto.
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