Dopo l’avvento e la morte di Superman il governo americano è sempre più preoccupato per l’eventuale attacco da parte di minacciosi super umani impossibili da contrastare con armi convenzionali. La soluzione la trova Amanda Waller il capo dell’Argus, un ente governativo che gestisce i super criminali. L’idea è di usare dei “cattivi” particolarmente abili, mandandoli allo sbaraglio a combattere calamità imponderabili senza preoccuparsi di perdere qualche elemento della singolare task force che viene, appunto, chiamata Suicide Squad.
A farne parte c’è il killer Floyd Lawton la cui mira eccezionale lo ha reso una leggenda, Harley Quinn la ragazza psicopatica del super criminale Joker, Digger un rapinatore australiano, Chato Santana l’uomo con l’abilità di produrre fiamme dalle mani e Waylon Jones il rettile. A completare la squadra anche Rick Flag militare e scagnozzo della Waller, deciso a tutto pur di salvare la fidanzata June, vittima di una possessione demoniaca, e Karen Fukuhara un’abile spadaccina. La minaccia però nasce proprio dall’Incantatrice/June, stanca di subire le angherie della Waller che la ricatta, poiché è in possesso del suo cuore. L’antica entità riesce a liberare un altro spirito e minaccia di costruire una micidiale macchina capace di distruggere il mondo.
Decisamente più preoccupato di essere cool che cult, David Ayer, regista e sceneggiatore di Suicide Squad punta tutti i riflettori sui muscoli di Will Smith, sull’inquietante bellezza di Jared Leto e il look di Margot Robbie, piuttosto che raccontare i suoi personaggi. L’intera presentazione della crew richiede appena pochi minuti e tutto il film si riduce alla lotta dei cattivi/buoni (Lawton e compagni), conto i buoni/cattivi (la Waller e il governo) ed epilogo contro il super mostro finale.
Forse a causa della disperata lotta contro il tempo che la DC pare aver intrapreso per raggiungere la Marvel e comporre anche lei il suo universo di super eroi, Suicide Squad manca proprio di una narrazione che sappia mettere a fuoco i character. Esattamente come sarebbe stato The Avengers senza i capitoli precedenti dedicati a Captain America, Thor e Iron Man, Ayer dà allo spettatore appena qualche accenno sul passato dei protagonisti, pretendendo però un’immediata empatia. E sta tutta qui la differenza del progetto delle due case editrici.
Che si tratti di cinema o televisione, ciò che oggi anche il pubblico dei blockbuster più baracconi pare gradire è quella serialità in grado di creare famigliarità con i personaggi e, se proprio non si può investire in un universo espanso come quello della Marvel/Disney, è richiesto per lo meno un buon lavoro di sceneggiatura. Un esempio su tutti? Il nuovo Star Trek di Abrams con un’introduzione di tutti i protagonisti da manuale.
La partita che il cinema si trova a giocare è tanto più difficile se si pensa a quali sono i suoi competitor televisivi. Netflix sforna film di otto ore come Stranger Things, riuscendo a sviluppare trama e personaggi grazie a una durata che il cinema può solo sognare. Per questo la pellicola di Ayer sembra obsoleta, perché rappresenta un vecchio modo di intendere i film d’azione, incapace di cercare strade nuove.
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