Dopo trent’anni di navigazione in acque ora più agitate, ora più tranquille, Dylan Dog è ancora qui e si appresta a festeggiare questo giro di boa con una serie di iniziative che ci accompagneranno per tutto l’anno. A fendere le onde e a doppiare il capo per primo aprendo la rotta è questo numero 361, interamente a colori, intitolato Mater Dolorosa, affidato ai testi e agli incubi di Roberto Recchioni (attuale responsabile della testata) e all’arte e alle visioni di Gigi Cavenago.
Fin dal titolo, il riferimento che salta subito agli occhi è a quel Mater Morbi, da molti considerato come uno dei numeri migliori degli ultimi anni dell’Indagatore dell’Incubo, che ha consacrato Recchioni, ben prima di diventare il curatore della testata, come una delle firme più interessanti al lavoro sull’inquilino di Craven Road. E in effetti “Mater Dolorosa” è per certi versi un seguito di quella storia, ma è, al contempo, anche altro. Molti dei traguardi e degli anniversari di Dylan Dog hanno coinciso con nuovi capitoli della storia misteriosa del protagonista e del suo travagliato rapporto con il suo padre/nemico Xabaras, questo numero 361, dunque, per certi versi non poteva esimersi da questa incombenza.
Il risultato di questo mix è un albo particolare, fuori dagli schemi anche per l’Indagatore dell’Incubo, in cui si fondono due mitologie e che, al contempo, risulta una delle storie più esplicitamente metafumettistiche del personaggio creato da Tiziano Sclavi.
La vicenda si svolge, contemporaneamente, su due piani temporali diversi, destinati a convergere solo nel finale.
Nell’oggi Dylan è costretto a fare nuovamente i conti con Mater Morbi: verità o finzione? Il male è davvero ritornato o si tratta solo di una paranoia dell’old boy? In realtà poco importa, quello che importa è come il protagonista reagisce di fronte a questa convinzione: richiudendosi in sé stesso, allontanando gli altri pur fingendo che tutto vada bene, anche se si sente morire dentro.
In parallelo ci ritroviamo, di nuovo come nello storico numero 100, sul galeone su cui sono imbarcati Xabaras e la sua famiglia: sua moglie Morgana e suo figlio Dylan. Ed è qui che scopriamo che la conoscenza tra Mater Morbi e Dylan è di lunga data, ben precedente a quel numero 280.
Recchioni, dunque, riscrive il passato del protagonista mutuandolo con la sua personale visione del personaggio, ma senza snaturarlo, mantenendone intatta la coerenza. Non lo altera, bensì lo approfondisce e ne amplia gli orizzonti.
Laddove in “Mater Morbi” ad essere affrontato era il rapporto con la malattia e la sua accettazione, qui viene affrontato, invece, il rapporto con il dolore che, complice la presenza di Dylan bambino, diviene un percorso di crescita e comprensione.
Alla storia, quindi, si affiancano le riflessioni dell’autore sulla malattia e sul dolore, come già accaduto nella prima apparizione di Mater Morbi, che non possono che ricondurre i lettori alla storia personale di Recchioni. Se vi è una identificazione metanarrativa tra l’autore e il protagonista, lo stesso avviene, però, anche tra l’autore e il nuovo arcinemico di Dylan: John Ghost. L’incontro tra i due, in uno dei momenti di maggiore debolezza e fragilità dell’indagatore dell’incubo, è il pretesto per una digressione che riguarda il personaggio fumettistico e il nuovo corso della testata stessa, iniziato proprio quando Recchioni ne è divenuto il curatore. Ghost è il nemico che distrugge tutto ciò a cui il protagonista tiene, ma solo al fine di salvarlo da sé stesso. Tutto deve essere raso al suolo per costruire qualcosa di nuovo, il passato deve essere lasciato alle spalle perché non diventi una zavorra che impedisca di andare avanti e finisca per trascinarci indietro.
Emblematico anche il modo in cui Dylan pone fine alla conversazione: fa qualcosa che Ghost/Recchioni non si aspettava. Questo era uno dei tratti distintivi del personaggio quando è nato, una delle caratteristiche che ne ha decretato il successo (salvo, poi, perdersi per strada nel corso del tempo): essere imprevedibile. Così dovrebbe tornare ad essere, nelle intenzioni dichiarate del curatore e nelle speranze dei lettori.
Se, sotto il profilo della scrittura, stiamo dunque parlando di un albo importante, con una storia e caratteristiche che potrebbero facilmente farlo diventare in breve tempo come una delle pietre miliari della serie, l’aspetto grafico non è assolutamente da meno.
Gigi Cavenago, già apprezzatissimo illustratore autore delle copertine della collana Dylan Dog Old Boy, realizza 98 tavole capaci di togliere il fiato.
Non siamo di fronte a un classico albo a colori dell’indagatore dell’incubo come il già citato numero 100, o altri speciali, non ultimo il numero 337 Spazio Profondo” che ha dato inizio al nuovo corso. Cavenago non realizza tavole in bianco e nero, poi colorate (da lui o da altri). Si potrebbe quasi dire che, in questa occasione, non fa il fumettista, ma il copertinista; solo che lo fa per tutte e 98 le pagine di “Mater Dolorosa”. Tutto l’albo è una serie di illustrazioni, ogni pagina è un piccolo capolavoro di forme e colori. Alcuni accostamenti cromatici sembrerebbero azzardati, perfino sbagliati, se descritti a parole, eppure sulla pagina funzionano, eccome se funzionano!
Il rischio, in una simile situazione, avrebbe potuto essere di trovarsi, alla fine, con splendide immagini, ma fini a sé stesse, che non comunicano: fredde, belle ciascuna per conto suo, ma non legate dalla capacità di raccontare. Questo non accade: Cavenago riesce a lasciare senza parole per la bellezza, la capacità evocativa di alcune splash-page e al contempo non perde il ritmo dello scafato narratore per immagini. Si potrebbe dire che questo albo rappresenta il perfetto connubio tra il fumetto e l’arte grafica perché riesce a fondere questi due metodi comunicativi senza che nessuno dei due perda colpi o ceda il passo all’altro. Tutto è perfettamente bilanciato e dagli esiti strabilianti.
Le qualità di Cavenago sono ben conosciute e ancor più lo sono da parte di Recchioni che, in alcuni passaggi della sceneggiatura, sembra aver voluto fare un passo indietro. In vari momenti le vignette sono lasciate a parlare da sole con pochi, scarni (se non nulli) balloon, eppure la storia non perde il filo, anzi, quasi ne guadagna in significati.
Spesso si tende a lasciare in secondo piano la resa grafica di un fumetto, come se la storia fosse più importante e i disegni, in fondo, solo un modo per renderla comprensibile, per comunicarla al lettore. In realtà sceneggiatura e disegni si dividono equamente i meriti (o i demeriti) del riuscire a raccontare. Una bella storia non riuscirà mai a toccare fino in fondo il lettore se trasmessa attraverso disegni brutti o che non riescono a dare la giusta importanza ai vari momenti, così come i migliori disegni del mondo saranno solo una gioia per gli occhi, ma quasi sterili e privi di significato se al servizio di sceneggiature banali. In genere è difficile assistere a così marcate differenze tra parole e disegni, ma è soprattutto in occasioni come questa, di fronte a un risultato simile, in cui sia testi che immagini sono di altissimo livello, che anche i più refrattari sono costretti ad aprire gli occhi.
Il trentennale di Dylan Dog, dunque, non poteva cominciare nel modo migliore (e ci aspettiamo che prosegua degnamente, visto anche il ritorno alla scrittura di Tiziano Sclavi). Mater Dolorosa è una storia che affonda le proprie radici nella mitologia stessa della serie, riuscendo al contempo a porre le basi per un’ulteriore evoluzione della testata e ad essere perfettamente leggibile in maniera a sé stante con un messaggio bello e profondo; una storia che, oltretutto, è splendidamente illustrata da uno degli astri nascenti del fumetto Italiano. Con Mater Dolorosa Dylan Dog stabilisce un nuovo standard per il fumetto seriale da edicola, portando l’asticella davvero in alto. Fare di meglio sarà difficile, ma proprio questa sfida speriamo che sia uno sprone per molti altri.
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