Che piaccia o meno, The Blair Witch Project è stato nel 1999 un horror mainstream in grado di dare uno scossone al genere, riportando alla ribalta il mockumentary e utilizzando internet forse per la prima volta per creare una pubblicità virale. La storia era delle più semplici: tre ragazzi, Heather, Joshua e Michael decidono di girare un documentario sulla strega che infesta i boschi circostanti il villaggio di Burkittsville anticamente chiamato Blair, muniti di due telecamere, una a colori e una in bianco e nero. Non ritorneranno mai più, e l’unica cosa che si salverà sono le cassette sulle quali hanno registrato questa terrificante esperienza, che in seguito verranno montate cronologicamente per dare coerenza al materiale.
The Blair Witch Project fu un enorme successo economico a monte di un investimento produttivo quasi inesistente, e che diede il via a un filone horror che faceva proprio del mockumentary il suo marchio di fabbrica. Tra le pellicole più riuscite non si può non citare lo spagnolo REC del 2007 e di un anno dopo la rivisitazione del mostro di Godzilla in Cloverfield, entrambi film però che scendevano fin dal principio a patti con l’illusione di mettere lo spettatore davanti a un autentico documentario.
La riuscita di The Blair Witch Project stava invece proprio nell’utilizzo di un montaggio scarno dovuto alla presenza di due sole telecamere e all’assenza completa di qualunque tipo di mostro. Più che paura lo spettatore viveva in un senso di disagio sempre maggiore, circondato da un bosco buio e impenetrabile, dove la minaccia c’era ma non si vedeva mai.
Blair Witch di Adam Wingard (regista del prossimo live action americano di Death Note) prende spunto dalla trama del film del 1999 abbandonando, però, completamente lo spirito originale.
James, il fratello di Heather, è deciso ad andare a cercare la sorella nel bosco dov’è scomparsa, dopo aver visto su Youtube un filmato in cui appariva in una casa misteriosa. Ad aiutarlo ci sono Lisa, Peter e Ashley, a cui si uniscono anche Lane e Talia, i due che hanno filmato la ragazza scomparsa. Tutti i componenti del gruppo sono muniti di una telecamera e si portano dietro persino un drone per andare alla ricerca della casa in cui potrebbe trovarsi Heather (la stessa che si vede alla fine di The Blair Witch Project).
Già da principio è chiara quella che è la maggiore differenza tra l’originale e il sequel, ovvero il peso che la tecnologia ha sul mockumentary stesso. Blair Witch è tutto un montaggio sincopato di immagini fuori fuoco di ben sei telecamere che invece di dare un senso di autenticità, ottengono l’effetto opposto. Stessa cosa dicasi per la famosa casa che nel 1999 era un rudere fatiscente autentico, e che invece nel 2016 diventa evidentemente un set cinematografico pieno di porte, gallerie e botole a non finire.
A che gioco stia giocando Adam Wingard e quanto sia consapevole di quello che fa, non è ben chiaro. Archiviata da almeno due decenni l’illusione del documentario, ciò che dovrebbe rimanere è la sperimentazione che però è del tutto assente in Blair Witch, a cui rimane l’enorme difetto di non fare paura praticamente mai.
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