Salve voi forti diseguali mura,

cinta del Mondo da che il Mondo dura,

torre salda all’umana debolezza,

mastio, baluardo, corte, salvezza.

Tacete aule quiete di amarezza,

e spengasi il sorriso, ogni contezza;

smettasi ogni folle umana cura,

menate vita mesta, breve e pura.

Di gloria in vita non v’è alcuno degno

e tutto è un rincorrersi di affanni:

insegnami il silenzio, l’umiltà,

a vivere in ginocchio, la viltà,

lo sperpero che ho fatto dei miei anni.

Potente, imperituro, santo Regno.

1.

– Fuori! Fuori! – ruggisce l'Uomonero.

Otre abbatte la porta a colpi d'accetta, Tristano alle sue spalle attende. Resta così, a una certa distanza: teme sempre che una scheggia lo accechi. L'uscio a colpo a colpo cede, l'ascia spacca il legno, i cardini, affonda, la lama s'accanisce furiosa contro il mobilio ammonticchiato dall'altra parte. Grida. Otre per qualche istante si ferma, respira, ascolta: gratificante disperazione. Deterge il sudore coi guantacci di cuoio. Si gratta. Di nuovo. Vibra il colpo con rinnovata ferocia. I gemiti, i singhiozzi, l’isteria di dentro. E – nota Tristano – questo odore caratteristico dei miserabili. Dagli squarci scorge i volti nell'ombra, e i volti sono sempre gli stessi, contratti e rigidi nel medesimo orrore. Soprattutto sa che possono vederlo: la sua figura nella nera livrea. È il momento, questo, in cui s'impone il suo potere.

Otre scaraventa la porta, getta via bestemmiando orribilmente il letto il tavolo le sedie che la sostenevano. Pensa, Tristano, che sta forse un po' invecchiando il compare: tempo fa mandava all'aria tutto e subito, un calcio, e l'effetto era il medesimo di un'esplosione. Urlava di più, e davvero incuteva paura per il fatto soltanto che si sapesse cos'egli fosse. Ninnananna ninnaoh questo bimbo a chi lo do? Lo daremo all’Uomonero che lo tiene un mese intero. Terrorizzava all'apparire all'orizzonte, già lontano dalle porte dei villaggi quando, sui sentieri polverosi, dalle finestre, i campanili, le vedette si scorgeva caracollare la sua mole. Bastava il pugno, non gli servivano mannaja e accetta. E bestemmie se ne inventava di colorite. Otre, ora, mostra segni di stanchezza. Ma è in tutto e per tutto ancora un ottimo Uomonero.

– Uscite, perdio!

Nessuna opposizione, difesa. Due donne: un’anziana e una giovane. Si assomigliano: madre e figlia? Non simili a tal punto, piuttosto nonna e nipote. L’anziana denutrita, malferma, afflitta dalla cataratta. Disgustosa figura. Settant’anni? La giovane sana: avrebbe certo, ha certo, gote fresche e rosate, labbra piene quando non fosse terrorizzata. Ma ora lo è. Terrea, la bocca serrata dallo spavento. Occhi verdi. Bei capelli castani. Diciannove, ventitré anni? Toglierle quegli stracci di dosso, grattarle la sporcizia, avvolgerla in una nube di borotalco, del profumo, correggere i modi il portamento il linguaggio. Potrebbe apparire una splendida ragazza, è in effetti una splendida ragazza. No che non lo è. Sciocchezza. Ché in fin dei conti non sono un granché le donne. Una domestica. Indifferente. Una bambina di quattro anni. Indifferente. Tristano non rammenta i loro nomi, checché gli informatori li avessero a lungo e con veleno sussurrati checché annotati fra le istruzioni ricevute. Indifferente.

La minaccia di prenderle per i capelli, rovesciarle con uno schiaffo a terra. Rivoltare loro lo stomaco con un pugno, calci in faccia, distruggergli il ventre. Trarle fuori di casa afferrandole per il collo. Ostentare la mannaja incrostata di sangue. Una carezza di ruggine all’altezza della vena giugulare. Sgualdrina troia puttana bagascia, tu, tu vecchia schifosa diomaiale diocane. Muovetevi. Serva. Di fronte all’Avvilente in ginocchio ma non vi azzardate ad abbassare lo sguardo. Ve li cavo quegli occhi. Ma cosa frignate. Vi strappo la lingua, vi taglio la gola cagne. Ma Otre di queste cose non ne fa, non ne ha mai fatte. Non ha il permesso di violare la persona, mai. A meno che. L’Uomonero fa a brandelli, fa a pezzi, può offendere, levare la spaventevole voce, esplodere in un belluino ruggito. Può levare e mulinare l’accetta, spintonare i pervicaci e non occorre altro. È sufficiente la terribile idea che possa e che sia in grado di farlo. Ninnananna ninnaoh questo bimbo a chi lo do? Lo daremo all’Uomonero che lo tiene un mese intero.

Come al solito in queste piccole comunità si è radunata una folla per assistere alla sentenza. I più timidi timorosi ipocriti se ne restano all’altro lato della strada, indugiano ai banconi di bottega, scelgono soppesano un grappolo d’uva, un pesce, la qualità la consistenza e il colore di una stoffa. Assaggiano o annusano una spezia. E intanto volgono lo sguardo alle spalle, tendono alle grida un orecchio pruriginoso. Quelli che stanno a posto con la coscienza, o che si illudono di, o gli strafottenti, si affacciano alla staccionata e al cortile come a teatro o come un’aula di giustizia. Mani virtuose incrociate dietro la schiena, mani affondate in tasca irriverenti rabbiose. Tutti l’identico volto di gesso. Tristano attende che siano tanti da sgomitare, che i giovani si scansino per fare luogo agli anziani che i ragazzacci striscino si acquattino fra le gambe, che i padri si prendano i piccoli sulle spalle. Che il bottegaio smetta la conta delle monete. Il vocio monta attorno al cortile, s’effonde una vampa di sudore caldo. Il raglio, il belato, il muggito degli animali. Le galline indisturbate beccano. Indifferente.

Ora quello grosso si fa da parte e sta zitto, siede pesante su una mangiatoia, posa l'ascia, attende. Che sciolga il padrone quella sua orribile lingua a recitare quella sua orribile tiritera. Tristano può maledire e minacciare. Può condannare. Annunciazioni agghiaccianti. La sua voce, di terracotta che si fa in briciole, non muterebbe di tono, non cederebbe al dispetto l’indignazione l’ira. Non prova alcuna di codeste emozioni, non gli appartengono. Indifferente. La sua voce resta piatta, priva di timbro, di sentimento, di inflessioni. La medesima nota di vasellame che si spacca. La sua faccia è una maschera immobile, pallida, inespressiva. La fronte alta dell’intelligenza, i tratti taglienti del gelo. Gli occhi freddi, malati, il suo sguardo infinitamente lontano. Com'egli fosse nient'altro che un setaccio cui filtrasse lì, ora, in quel luogo in quell'istante, contro quelle persone, tutta l’indifferente ostilità del Mondo. Mestiere, esperienza, talento, teatro, osserva Otre ogni volta ammirato. Non per niente un Grande Avvilente del Regno.

La donna anziana, la ragazza, la domestica e la bambina sono uscite e si raccolgono nel cortile. Tremano convulsamente. E lasciamo che ancora tremino, non abbiano il fiato, la forza d’animo di dominarsi. Scossa la piccola da un singhiozzo nervoso che non sa, che non riesce a trattenere. La giovane non ha la presenza di accarezzarle i capelli, cingerla, raccoglierla al grembo. Gli occhi le bruceranno di lagrime. La donna anziana non può reggersi in piedi, Otre la sorregge e trascina. La vecchia cade. A corpo morto sull'uscio fatto a pezzi. Si fa male, ché il vialetto è di pietra. Cade a faccia in giù, si spacca il labbro e si rompe almeno un dente, e sanguina. Le hanno sorprese nell’intimità del buon mattino ch'erano ancora in vestaglia, scoperte, leggere. Meglio così – sa Tristano – oggi è un giorno rigido di tardo autunno: il terreno tutto attorno è umido, l'aria insana, fa ammalare. Soffriranno di più.

La folla adesso non ha più pudore. Si apre il cancello, oppure scavalcano, entrano. Ma si arrestano, ed esitano, e balbettano delle meschine scuse quando qualcuno si fa troppo prossimo all’Avvilente. Un passo indietro canaglie, la misura del manico teso dell’ascia di Otre. Ad assistere a quello che – Per certo – tuona Tristano. – Sarà per tutti uno spettacolo pietoso!

– Nessun altro all'interno? – ringhia Otre.

Sa di no, lo sa benissimo ma è lo stesso. Perché è un insulto, è un'altra violenza che accresce il dolore e l'umiliazione. L'Uomonero entra a dare un'occhiata. Dietro alle tende. Armadi. Cantine. Botole ed eventuali soffitte. Profana quanto può di quella piccola intimità. Tocca, per lasciare su ogni cosa la sua impronta e il suo odore. Ma non rompe, non butta all'aria: perché questa, sporcare l'intimo amato e prezioso delle persone: gliel'ha insegnato Tristano, è una maggiore e più sottile brutalità. Fa un giro senza fermarsi nelle stanze. E torna fuori: prima che la sua spiacevole figura scompaia dalle pupille delle vittime e del pubblico.

L’Uomonero è sbragato comodo sulla mangiatoia. Le gambe, le scarpe enormi, distese ad affondare nella porcilaia. L'Avvilente ha chiesto alle donne di inginocchiarsi, l'uno accanto all'altra, sul lato del giardino ch'è più esposto alla strada. Che i miserabili i sadici i maliziosi i colpevoli vedano meglio, là fuori, alla mercé della folla. Che è quello che gli ipocriti vogliono dietro le lagrime le fronti indignate le smorfie. Tristano rivela un rotolo nel mantello, un manoscritto: quattro metri di pergamena, sigilli di ceralacca, maiuscole miniate in rosso e nero e un'elegante epperò sinistra, contorta calligrafia. Tristano ha un grandioso senso del rito. Non legge semplicemente: interpreta con sentimento.

– Ascoltami, ragazza: tu, madre abbandonata di una bambina, che duramente hai cresciuta da sola ché il padre se ne fuggì quando ti seppe incinta, un individuo spregevole, hai vissuto fino ad ora in malinconia con quest’anziana egoista e malata. L’hai accudita senza mai lamentartene per quanta fatica ciò ti sia costata, per quanto ella t’abbia rubata la giovinezza e costretta a una triste esistenza. Pur indigente, di poverissime risorse, hai preso in casa questa domestica velenosa, che quando e se può vi ruba il poco che avete e senza pudore vi disprezza e svergogna. È così?

La giovane in silenzio annuisce. Le lagrime scavano le gote e le segnano il viso come crepe su un vetro. Tristano attende il tempo di un singhiozzo.

– Insomma un'esistenza miserabile. Fino a che – questo io ho saputo, e bada di non mentire – da un mese appena un giovane della città, onesto, lavoratore e di bell’aspetto, ti ha finalmente dichiarato il suo amore e l’intenzione di sposarti quanto prima; divenir padre di questa tua figlia accanto a te e sostenerti nelle difficoltà di questa anziana. Infine restituirti alla vita, alla bellezza e alla gioventù che le circostanze ti hanno negate. È così? Rispondi a voce alta, e che tutti ti odano.

La giovane cerca il fiato in fondo al petto: – Si. È così, Grande Avvilente Eccellenza.

– Speri di essere un domani felice.

– Sì… Spero, Grande Avvilente Eccellenza.

Ed ecco allora all'improvviso il gesto. Tristano le si fa più vicino. Porge a Otre la pagine che leggeva come più nulla gli importasse del documento. L’Uomonero, che sa, lascia cadere il rotolo nel fango. Poi l’Avvilente, fra lo stupore della folla, s’inginocchia sul prato sporco ed umido ad abbracciare la ragazza con affetto. Le mani arrossate, piccole di lei scompaiono nel pugno nero di Tristano, i suoi singhiozzi il suo terrore la frustrazione soffocano insopportabili nella candida gorgiera, il corpo tremante nella vestaglia sciupata si ricovera nel velluto della notturna livrea. Tristano lascia cadere il cappello, non se ne cura, non lo raccoglie. Stringe e accarezza il capo della ragazza e sembra che nulla gli sia più caro di lei. Muta voce, un sussurro, un’inflessione di calore umano e commozione. Le sue parole risuonano più lievi e, lo stesso, pungono più crudeli: – Non si può ragazza. Non si può.

La giovane si sfoga in un pianto disperato, grida di rabbia finalmente, dolore. Si accascia a terra quasi priva di sensi. Tristano non smette affatto di stringerla e anzi con lei si rovescia sull’erba. Fango e umido gli lordano l’abito, le calze, le scarpe di vernice. L’austera maschera si sporca di mota. Non se ne cura, le resta sempre accanto. Infine la ragazza sviene. Il suo cuore anzi ha cessato per un istante di battere. Perfetto, perfetto. L’Avvilente scioglie piano l’abbraccio, ormai la affida alle cure dell’anziana. La domestica la assiste con untuosa premura. La bambina, che non comprende, resta in ginocchio come in preghiera sul prato. Tristano si alza in piedi, recupera il cappello. Saluta con un inchino la comunità spettatrice. Non è il giullare che riverisce il pubblico. Vostra è la farsa, i buffoni siete voi. La folla è attraversata da un brivido di commozione.

– Rassegnatevi. Vivete infelici.

L’agghiacciato, servile silenzio è l’applauso e l’ovazione più gratificante.

– Questa è fatta. Dov’è il promesso sposo?! – grida Otre. – Dov’è l’amoroso che si augurava felicità?!

Tristano torna a scrutare la folla. Uno per uno. Gli uomini, i giovani, i non troppo giovani, i non troppo anziani. Anche i padri. Anche i bambini a cavalcioni dei padri. Anche i garzoni con la peluria sulle labbra con un’ombra innocente di pelo sul mento. Anche le donne, ruffiane. Come potesse trapanare loro il cranio, stendere le dita sottili crudeli ad afferrarne i cervelli titillarne i nervi. E spremere come umori da quelle teste i patetici pietosi miserabili propositi. No che non posso: non sono uno stregone. Con uno sguardo non potrebbe mai superare la cinta di quelle stolide fronti, profondare nel torbido di quelle acquose pupille leggere il fremito di una narice un ciglio. Quella teoria di anonime fisionomie. Nessuno potrebbe. Ma è sufficiente l’Avvilente guardi, l’Avvilente intensamente fissi.

– Sono io – balbetta un nome da zappatore. Indifferente.

Un giovanotto di bell’aspetto, belle membra, viso gentile e luminoso sguardo. No, macché. Goffi, dinoccolati, la plebaglia non ha mai un bell’aspetto. No, macché: gli occhi di nessuno rilucono più. Otre innanzi tutto si sincera sia disarmato. Si fa avanti fra compari che non lo trattengono, anzi, lo spintonano un po’. Più basso di Tristano di almeno quattro pollici: utile. Ora nessun rito o cerimonia. L’Avvilente resta a guardarlo in silenzio. Quello non fa mostra di timore. Forse. Tristano accenna un amaro sorriso.

– Ma non è onesto metter su famiglia, star bene se si può, crescere figli, mandare avanti una casa?! – infine scoppia il giovane in un grido con la voce quasi rotta dal pianto.

L’Avvilente lo zittisce con uno schiaffo. Otre in un baleno gli è addosso, e il ragazzo assaggia il piatto dell’ascia. Stomaco, reni. Il giovane boccheggia a terra. L’Uomonero gli si fa pesante sul petto e si assicura non si sollevi di lì.

– Ti porto via – dispone Tristano. E l’altro dal fango lo interroga con un rantolo: – Per ucciderti.

* * *

Otre gli accarezza la schiena con il bastone. E poi avanti, a calci in culo stronzo, fino all’angolo della strada. C’è una lanterna, c’è l’insegna di una cantina. La folla vorrebbe seguirli, spiare, appiccicare il molteplice meschino volto alle basse finestre dai vetri piccoli e opachi. Ma è vietato, proibito interrogarsi. Così, fingendo di non esserci mai stato, ognuno torna a occuparsi delle proprie faccende col pensiero alle pareti, ai selciati, agli androni alle botteghe ai trogoli le bancarelle. La moneta torna a cadere sui palmi aperti; torna a correre il commercio di nulla. Li seguono fino alla fine molti sguardi di sottecchi. Vocio. E si fa finta di niente.

Tristano percuote l’uscio con il battaglio, Otre neppure attende l’eco dei colpi e fa a spallate per scardinare la porta. Di dentro allora un trascinar i passi, un concitato armeggiare al chiavistello. Otre mena più forte, un altro colpo sul frassino. Di dentro un disperato spaventato rantolo e un respiro difficile e affannato. Preghiere sottovoce. Oh, povero me! Una minaccia. Di uomo. Voce non più giovane, stanca, soffocata, finge fermezza autorità spavalderia. Tristano, per codeste sfumature, ha un orecchio musicale: finge. È solo. Ha la mano tremante avvinghiata alla serratura. Un cenno e l’Uomonero abbandona.

– Chi è là, mascalzoni!? Ho il colpo in canna, vi brucio!. – Il cantiniere. Macché. Avrà al massimo un bastone. Fra la cintola e il grembiule già lordato di orina.

– Aprite, della cantina! Grande Avvilente del Regno!

Un minuto ad armeggiare coi lucchetti. Tinnio di chiavi che più volte cadono, scivolano fra le dita mortificate e timorate. Raccolte. Coi lucchetti daccapo. Un pigolio. Sant’Iddio. Un Grande Avvilente. Eccellenza perdonatemi. Non avrei mai immaginato che… Si apre la porta su una grotta odorosa. Sentore di vini che riposano nelle botti, di sughero, d’aceto, le narici accarezzate da piaceri che essiccano. Stagionature di salumi, di carni, d’olive, di formaggi. D’ortaggi che marinano nell’olio. Tracce impercettibili di muffa e di caffè. Macché. Tanto ben d’Iddio che alla lunga andrà a male. Si apre su una faccia avvinazzata avvitata su un corpo sfatto e quasi nudo. Glabro. La palandrana sulle carni flaccide. Le chiavi alla cintura. Una roncola, no: aveva davvero uno schioppo a tracolla. Non che faccia la differenza. Dalla canna cadono sul pavimento grossi grani di sale.

Tristano gli impone di far luogo. Guanto nero sulla pelle arrossata, fredda, sudaticcia. È sufficiente, il cantiniere lascia passare, arretra. Eccellenza perdonatemi. Io, io!… Balbetta, le mille scuse. Non osa guardare l’Avvilente negli occhi. Inciampa, sbatte, si fa da parte finalmente, sta zitto. Tristano scende piano un gradino. Qualche passo sulla soglia della cantina sguardo insufficiente fin nei recessi più bui. Una stufa di ottone. Una riserva di legna. Lucernari quanti bastano a respirare. Tavoli, panche. Robustissime travi. Una piccola porta socchiusa su un magazzino; scalette di pietra che si arrampicano in alto.

– Avete alloggi qui?

– Al piano nobile, Eccellenza.

– Allocati?

– Nessuno, Eccellenza.

– Confiscato.

– Onorato, Eccellenza.

– Cantiniere.

– Eccellenza?

– Come vanno gli affari? – quella voce di terracotta che si spezza.

– Non bene, Eccellenza.

Tristano compiaciuto annuisce. L’uomo appende al chiodo lo schioppo. Corre già al bancone a preparare i bicchieri, avanti e indietro per le rampe e la dispensa. Otre strattona dentro il suo giovane prigioniero. Getta l’ascia, le sacche, si butta su un panchetto. Il legno allora scricchiola, la sedia sa di schianto. Il cantiniere per un momento si arresta. Otre ha gli scarponi su un tavolo. Regge. Il cantiniere torna a infornare una cena. Il ragazzo lo si accomoda su un barile. Giù. Il barile è marcito, ha qualche chiodo arrugginito e sporgente. Utile. È un sedile disagevole e precario. Tristano prende per sé la migliore fra le seggiole. È di mogano, è nera, e l’Avvilente anche seduto è ben più alto del prigioniero. Utile. Gli sta di fronte. Per impietosi secondi. Da qualche parte dal profondo della grotta crepitio di fiamme e tintinnio di caraffe, strofinio di coltelli e di forchette per l’arrosto. Il cantiniere, meglio così, non è sciocco: si è dileguato. Otre reclina il capo e sta quasi per addormentarsi.

Il ragazzo a occhi chiusi ostinatamente. Stringe i denti, e deglutisce, e trema. Guardami. Non obbedisce. Guardami. Resta a palpebre ferocemente serrate. Però neppure il sorgere di una lagrima, neppure una misericordia gli si invola dalle labbra.

– Che cosa credi, idiota. Nessuno qui ti torcerà un capello. Domattina te ne andrai. Dove ti pare. Libero.

– Come?…

– Hai coraggio, garzone. E pensi all’amore. Potresti invece partir soldato, per esempio.

– Che cosa?…

– Sempre che, hai ragione, il Regno avesse ancora un esercito. No. Macché soldato. Che stupidaggine. Anche peggio del correr dietro ad una donna. Chissà.

Solleva il capo, il giovane. Apre gli occhi, respira. Ammutolisce. Ora poco meno tremante. Poi riprende. Parole. Parla lo stesso con difficoltà.

– Che cosa dite? Vi fate beffe di me.

Otre si assopisce. Subito rumoroso disgustoso russare. Il cantiniere si trattiene in cucina. Quanto tempo, troppo. Non dovrebbe impiegarne tanto. E invece. Le posate stridono una volta di più, il fuoco attizzato una volta di più. L’ometto ha capito l’antifona. Obbediente, ottimo, discreto.

– Un Uomonero ti farà al massimo un occhio nero. Ti farà passare un brutto quarto d’ora. Gli Avvilenti non uccidono, stupido. Mai. Perché dovremmo. A che scopo.

– Voi… non ci lasciate sperare.

– Sperare. Che ingratitudine, giovane. Noi vi proteggiamo dalle illusioni, dal dolore, dall’amarezza, la frustrazione e la perdita.

– Ho ventun’anni. Vorrei pur credere…

– Credere. In cosa?

Quella voce di crollo di torri. E il giovane di nuovo nasconde il viso nell’ombra.

– Parla. Liberamente.

– Nell’amore, per esempio. Con una donna. Nel crescer figli. Far propositi con lei… Della terra, e delle bestie. E una casa nostra.

– Soffrire quanto, quanto affannarsi per tutto ciò?

– Può valerne la pena…

– L’amore. Già ora, io so, quando per via vai abbracciato all’amata, e il tuo sguardo incontra quello di un’altra, sul tuo cuore è calato un grigio tedio. Già ora, io so, tornando al tramonto dalla fatica nei campi, ascolti con noia le ciarle di tua donna. Vuoi posare, e chiuder gli occhi, e dormire di giusto sonno: ma le orecchie ti si riempiono delle lagnanze di lei. Questo solo otterrai negli anni che verranno. Non lo hai appreso dai tuoi medesimi genitori? Vale la pena?

– Questo no.

– Ora la tua bella è giovane, è sana. Ma le stagioni se ne vanno veloci. L’avrai fra qualche anno col ventre gonfio, le gambe piagate, le gote butterate. Con qualche dente di meno, e neri i pochi che le restano, e i capelli che cadranno a ciocche. L’avrai pur sempre a letto, non pronta al piacere ma petulante la malattia. Oppure potresti tu essere sfatto e malato, e gemere e sporcare le lenzuola e imporle il tuo bisogno e il tuo male. Oppure tutti e due. Questo prendersi la mala soma dell’altro. Questo ti toccherà per certo in sorte. Non è stato così per tua madre e tuo padre? Vale la pena?

– Questo no.

– Figli, vorresti? Crudele. E perché? Per imporre loro le fatiche e il dolore che tu già conosci, che preghi ogni giorno che il Cielo ti risparmi? Per grattare più miseramente la terra, e trovare che fra le zolle inaridite non c’è per loro semenza? Per ritrovare ogni sera le loro facce, magre, ammalate, attorno a un desco miserabile e vuoto? Per non riuscire a sostenere il loro sguardo, non udire il loro gemito che il tuo cuore farebbe a pezzi? Oppure per udirli rinnegare il tuo nome, e quello della tua sposa, voltarvi le spalle, togliervi tutto, bastonarvi forse. Per vederli incattiviti e ingrati partire alla ventura per il mondo, trascorrere notti insonni per loro e un giorno aprir la porta a uno sconosciuto che viene ad annunciarvene la morte in mare, di fiera, di assassinio? Non è stato così per te e i tuoi congiunti? Vale la pena?

– Non so. Sì. Certo. È stato sempre così. Ma potrebbe…

– Cambiare.

– Cambiare! – Un’irrequieta favilla. Quella voce di carrucola che cala il feretro nella cripta.

– No. – Il silenzio e la mano oscura dell’Avvilente greve sul capo chino e sconfitto del prigioniero. – Vivi mesto, giovane. Non illuderti. Non sorridere più. Ringraziamo il Regno per questa nostra quieta, sopportabile infelicità che ci preserva da un’insana follia. Il Mondo va così. Il Regno ce lo conservi.

Torna lesto il cantiniere con un arrosto e due boccali. Posa sul tavolo. Ignora il giovane, non fa domande. A Tristano, con un inchino, porge un calice con un assaggio di vino.

– Cantiniere.

– Eccellenza?

– Un alloggio per quest’uomo.

L’ometto trotta su per la scala al piano illuminato delle stanze per gli ospiti. Gemito di serrature e chiavi, di ante di armadio e di finestre che si aprono. Il fruscio ovattato di lenzuola dispiegate. Il tonfo morbido di ravvivati cuscini.

– Non occorre. Ho una casa qui in città…

– Vi tornerai domattina. Stanotte resti qui. Vattene.

Il giovane sale le scale a capo chino, in silenzio, non con il vigore dell’età che ha. Non si volge, non risponde. Non un cenno all’Avvilente.

Tristano scuote Otre, l’Uomonero si sveglia. Il padrone gli mette il piatto sotto il naso.

– C’è la cena. Goditela.

– Voi non mangiate?

– Non ho appetito. Sono stanco. Vado a mettermi in libertà. Prendi pure anche del mio, se ti va. Buonanotte.

Otre s’annoda il fazzoletto al collo. Cerca con le grandi mani le piccole posate. Sceglie il calice per il vino, ne versa, ne annusa.

– Otre.

– Padrone.

Non così. Da Uomonero.

Otre un po’ seccato abbandona le posate. Rovescia il bicchiere, beve al collo della bottiglia. Si unge le dita della grassa carne. Il calice, il fazzoletto, il coltello e la forchetta. È evidente. Il compare va perdendo smalto.

– E rutta, per cortesia. Forte. Vorrei ti si sentisse dalle camere.

Otre risponde con un ruggito suino.

* * *

Ora il giovane è solo nella sua stanza. Siede a lungo a spalle curve sul letto e la penombra gli si affolla di angosciosi pensieri.

Ora l’Avvilente è solo nella sua stanza. Posa sul letto l’alto nero cappello, con cura si toglie la parrucca color cenere. Scioglie sul petto il nodo del mantello.

Il giovane, nella camera accanto, sfila dalle braghe una cintura di corda.

Tristano d’attorno al collo si libera della gorgiera, lisa solo un poco dove toccava la pelle. Ripone le scarpe dalle lucide fibbie a prendere aria sul davanzale della finestra.

Il ragazzo mette mano a una seggiola. Si sincera sia solida, sale. Insozza la panca con le suole infangate.

Tristano lascia cadere la livrea di oscurità. Mescola, in un bacile di ottone, acqua fresca e qualche goccia di profumo. Vi immerge per qualche istante una pezza di daino. Il sollievo delle dita nell’acqua. Strizza il panno: è umido e profumato. Con pazienza e attenzione monda gli abiti dalla mota. Li spazzola quindi, li ripiega con cura. Li appende col soprabito alle grucce nell’armadio.

Il giovane passa la corda a una trave del soffitto. Tende, strattona. La trave è di quercia nera. Neppure scricchiola sollecitata così. L’altro capo se lo annoda attorno al collo. Lo scorsoio lo san fare tutti quanti.

Tristano si ricovera sotto un candido lenzuolo.

Il giovane si copre il volto con la camicia. E calcia via la seggiola.

Tristano quasi subito si addormenta sereno. A occhi chiusi, forse, avverte un tonfo, un colpo sordo e secco nello stomaco della notte. Ma il rantolo no, la parete è troppo spessa.

L’agonia si protrae per un minuto. La carotide si sfilaccia come una gomena segata. La bocca gli si riempie di bava. Sporca di umori i pantaloni rattoppati; appiccica di saliva l’asse lucida del pavimento. Muore.

Otre, dopocena, chiederà all’oste di provvedere al cadavere. Tristano, indifferente, si abbandona allo sbadiglio.

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