Conan è il superuomo, anzi il super barbaro in cui Robert Ervin Howard riuscì a infondere i suoi sogni di forza, pericolo e avventura continua, di audacia erotica e in combattimento, di impulsi ardenti seguiti all’istante, ma anche di un codice d’onore senza macchia e senza concessioni. È un vero eroe del Valhalla: di giorno combatte e soffre, la notte banchetta e amoreggia ma l’indomani è pronto a tuffarsi in nuove avventure. L’Era Iboriana in cui sono ambientati i suoi racconti è uno dei mondi fantastici meglio delineati: plausibile geograficamente ed economicamente, provvisto di una storia e di una preistoria che comprendono molte culture e molte razze, popolato di mendicanti e di re, di contadini e di poeti, di regine e di schiave, e, naturalmente, di guerrieri e incantatori.
Questa istantanea dei tempi mitici di Conan non si deve a Robert E. Howard, autore delle sue gesta apocalittiche, ma a Fritz Leiber, uno dei migliori scrittori che abbiano ripreso il genere eroico. Leiber ne delinea in pochi tratti le caratteristiche essenziali, ma il campione Conan possiede una qualità che lo rende pressoché unico: è un barbaro. Fatto all’apparenza poco esaltante, nell’opera howardiana acquista un’importanza centrale e viene sottolineato di continuo perché il barbaro è l’uomo schietto e non machiavellico, forte anziché svirilizzato dalle mollezze della civiltà. Sulla base di queste prerogative morali e fisiche diviene l’eroe di un genere cavalleresco (o forse dovremmo dire barbaresco, come tanta parte della letteratura americana di fantasia) particolarmente gradito al pubblico moderno: sia quello che aveva apprezzato le imprese dell’eroe incivile per eccellenza, Tarzan di E.R. Burroughs, che quello, più edotto, a cui non erano sconosciuti i capisaldi del fantastico epico inglese, da William Morris e Lord Dunsany a Eric Rucker Eddison.
Fritz Leiber ha battezzato il genere della fantasy popolare americana “sword & sorcery”, spada e magia, proprio come si dice cappa e spada: invenzione originale di Howard che deve molto alle tradizioni dei luoghi in cui visse all’inizio del secolo scorso, una serie di villaggi al centro del Texas che potevano essere considerati gli ultimi avamposti della civiltà di frontiera. Al di là dello steccato si agitava un mondo selvaggio e senza regole che il giovane scrittore avrebbe di volta in volta conosciuto, temuto e ammirato: gli ultimi indiani, gli approfittatori del boom petrolifero, i neri e gli immigrati. Se alcune di queste figure più grandi del reale sono “alla base dell’amalgama che io chiamo Conan il cimmero”, come Howard avrebbe dichiarato più tardi, nel suo ambiente gli avventurieri e gli stranieri di ogni sorta suscitavano una diffidenza atavica. La madre di Howard era una donna che ricordava ancora la paura dei pellerossa, per non parlare della gente di colore che nella contea di Callahan non era mai stata numerosa, ma che di notte era obbligata per legge a lasciarne il territorio. Nonostante queste precauzioni – e questa apartheid – la barbarie avrebbe trionfato comunque, perché il mondo dei villaggi bianchi era anche quello del puritanesimo, dell’ipocrisia e dell’ingiustizia. Per questo Howard ci sembra soddisfatto della sua profezia: la contrapposizione violenta e colorita fra barbari e uomini civili è un sentimento che gli serve a esprimere non solo una convinzione storica o antropologica, ma un disagio e un senso di rivalsa.
La frontiera, o quella che è stata la frontiera fino a ieri, diventa così la culla e il mercato originario delle nuove fantasie eroiche, rivolte a un pubblico di giovani americani non ancora inurbati. Sessant’anni dopo, una fetta sempre più cospicua di quel pubblico si troverà anche nel cuore dell’Europa industriale, a Milano, Barcellona e, mutatis mutandis, nelle varie plaghe dove dilaga l’American Way. In un articolo ristampato più tardi ne Il caos, Pier Paolo Pasolini descrive così la Lione del 1969: Non so che rozzezza, che aria barbarica… I giovani hanno spesso un’aria sottoproletaria, oppure di beat abbandonati a una cimmeria illusione di provincia.
Conan è un cimmero, il popolo del nord menzionato anche da Omero e che, secondo Howard, un giorno darà origine alla stirpe dei celti. Ha i capelli neri e gli occhi azzurri come il suo creatore, non somiglia soltanto a Sigurd/Sigfrido ma a Cú Chulainn, anzi il suo fisico gigantesco e dai muscoli tesi come corde può ricordare un Ercole. Parafrasando Leiber da un punto di vista mediterraneo, potremmo dire che Conan sia l’eroe di un “peplum” ante-litteram, il genere degli uomini forti che è stato popolare nel cinema delle origini e poi di nuovo in quello degli anni Sessanta. Con un’importante differenza, però: nel peplum l’eroe muscoloso usa la spada con parsimonia e prende a sganassoni solo i filistei (è insomma il gigante buono); Conan, dal canto suo, è un barbaro non soltanto dal punto di vista etnico ma etico. Trova conveniente uccidere, sebbene abbia il suo codice d’onore; non picchia le donne, non pugnala a tradimento, non ordisce complotti e perciò possiamo definirlo integro e pulito, come l’autore ci ricorda in più occasioni. Ma è una pulizia micidiale, da eroe “nero”, e parte dal presupposto che bisogna affrontare il mondo con la spada.
E uno spadone è la sua arma preferita, sebbene come avventuriero tra i kozaki abbia imparato a maneggiare i coltelli e tra i pirati sia diventato un maestro di sciabola. La spada è per Conan un mezzo di autodifesa e di conquista, ma non è soltanto questo. Se ci si permette il gioco di parole, è una freccia che punta verso il suo destino, quello di un combattente che alla fine del romanzo L’ora del drago viene descritto “come un truce eroe pagano della mitologia”. Fiero e impulsivo, il barbaro dà la morte con lo stesso fatalismo con cui la riceverebbe, perché non si considera migliore degli altri ma solo quello che deve tentare di sopravvivere più a lungo. E ogni volta che uccide, in massa o isolatamente, d’impulso o con premeditazione, prova un senso di trionfo e insieme di stanchezza, perché combattere è faticoso e non finisce mai. Avventuriero senza riposo, senza casa, senza famiglia (a differenza dei barbari che conosciamo dalla storia, guerrieri sì ma uomini come tutti gli altri), Conan insegue la sua missione, che consiste nel conquistare bottino raddrizzando torti. Insofferente a qualsiasi legge o compromesso, viene scacciato giovanissimo dalla sua tribù. Uno dei limiti dei primi adattamenti cinematografici è che ci mostrano un Conan bambino fatto schiavo e deportato, una manchevolezza dal punto di vista howardiano. Non solo il personaggio letterario è l’incarnazione dell’uomo libero e indomito, ma dagli accenni contenuti nei racconti sappiamo che nacque su un campo di battaglia e che, quando era ancora molto giovane, fu esiliato dalla Cimmeria a causa di un fatto di sangue che lo aveva messo contro le leggi del suo popolo. Di questa violenza originaria inflitta, non solo subita, i film hanno preferito non parlare, inventando la scappatoia della schiavitù. È la deportazione, sono le sofferenze dei ceppi ad averlo indurito, dicono gli sceneggiatori: ma Howard è molto più schietto. È il suo istinto di lupo solitario, di avventuriero sempre in cerca di rivalsa ad averlo esiliato dagli altri cimmeri.
Le avventure di Conan si svolgono in un tempo lontano, anzi mai esistito. Stando alla mitologia howardiana, dopo la distruzione di Atlantide e prima delle civiltà del medio oriente, quando il Mediterraneo era ancora una distesa di terraferma, sulla terra fiorì l’Era Iboriana. Il nome deriva dagli ibori, popoli originariamente barbari venuti dal nord ma evolutisi in raffinati creatori di imperi. Situata circa dodicimila anni fa, prima dell’ultima glaciazione, l’Era Iboriana costituisce una prova generale del mondo antico, più alcuni prestiti da altri periodi storici: il medioevo francese, il Seicento dei pirati. Epoca di regni dai nomi fantastici e tuttavia familiari, di splendore e di leggende, in cui le magie di un passato ancora più lontano minacciano di inghiottire da un momento all’altro i regni dell’uomo, ha in Conan il suo eroe-avventuriero. Sceso in gioventù dai monti freddi della Cimmeria, guerriero e combattente per tutta la vita, nella maturità usurpa il trono di una delle nazioni più potenti, commettendo un regicidio che è il coronamento della sua opera. I racconti di Robert E. Howard seguono la carriera di Conan nelle sue varie fasi, anche se non in ordine cronologico: da re a mercenario, da ladro a pirata. Nel corso di queste avventure entra in contatto con le principali genti della sua epoca e con i loro conflitti, segreti e costumi.
Il mondo articolato e ricco di tribù, stati e città-stato dipinto da Howard è stato sovrapposto più volte alla cartina dell’Europa, con il contorno dell’Africa e di alcuni paesi asiatici. La potente Aquilonia corrisponde più o meno alla Francia medievale, Zingara alla Spagna, Ophir e Koth sono regni simili all’Italia dei romani, Nemedia ricorda la Germania, Stigia l’Egitto terra di maghi. A oriente, il Mare di Vilayet rappresenta il Caspio; più oltre si estende il remotissimo Khitai che prefigura la Cina, a sud troviamo i regni neri di Zimbabwei, Punt e altri ancora.
Senza voler negare la parentela con il vecchio mondo, è ovvio che non sono i conflitti europei ad essere rispecchiati nei racconti di sword & sorcery, ma quelli americani. Come ha detto D.H. Lawrence, “l’America… ha un potente effetto disgregativo sulla psiche dell’uomo bianco. È piena di demoni indigeni feroci e implacabili, di fantasmi persino, che ossessionano l’europeo come una specie di Eumenidi, finché i bianchi rinunciano al proprio assoluto biancore. L’America è tesa, attraversata da una violenza e una resistenza latenti”. Violenza e resistenza riecheggiano costantemente in Howard, sia nella narrativa che nella collera e nel risentimento personali di un uomo conflittuale, diviso tra un desiderio di libertà estremo e la necessità altrettanto forte di reprimerlo, per non recidere i legami fondamentali della sua vita.
Nato a Peaster, Texas, nel gennaio del 1906, figlio di un medico di campagna, Isaac Mordecai Howard, e di una donna pioniera, Hester Jane Ervin, Robert vive in varie comunità dello stato prima di stabilirsi definitivamente con la famiglia, nel 1919, nella cittadina di Cross Plains. Comincia a scrivere giovanissimo e pubblica il primo racconto, un sogno a occhi aperti sugli uomini della preistoria, all’età di diciott’anni. Dal 1924 al 1936 la scrittura per le riviste di narrativa popolare diventa la sua vera attività professionale. Dopo una lunga amicizia con l’insegnante Novalyne Price, che in seguito gli dedicherà un libro di memorie, nell’ultima parte della sua esistenza Robert si consacra alla cura della madre malata, con la quale ha sempre avuto un rapporto strettissimo; ma all’annuncio che Hester è entrata in coma irreversibile, la mattina dell’11 giugno 1936 si uccide con un colpo di pistola alla tempia, mettendo fine a un’avviata carriera letteraria. Negli anni Trenta la sua popolarità poggia su riviste pulp come “Weird Tales”, “Strange Tales” e quelle dedicate ai generi affini; dagli anni Sessanta in poi emigra nei libri tascabili con le celebri copertine di Frank Frazetta, nei fumetti e al cinema. Dalle sue opere sono stati tratti i famosi adattamenti Marvel Comics (Conan the Barbarian, The Savage Sword of Conan, King Conan, Kull, Solomon Kane, Red Sonja, ecc.); sei film (Conan il barbaro e il suo remake Conan the Barbarian, Conan il distruttore, Kull, Yado e Solomon Kane), più un settimo che è stato ricavato dalle memorie di Novalyne Price, Il mondo intero. Due serie TV, Conan the Adventurer e Conan, sono state prodotte negli USA.
Oltre alle fantasie eroiche, Robert E. Howard ha prodotto una ricca messe di racconti western, storici, sportivi e dell’orrore, ma solo oggi gode di una buona notorietà fuori della cerchia degli specialisti. I suoi versi – è autore di un’abbondante produzione poetica, spesso usata all’interno della narrativa – sono ricchi di musicalità e di una rigorosa coerenza. Questa vena esprime le principali tematiche howardiane: la progressiva decadenza della civiltà, il ciclico ripetersi di epoche di luce e di buio, l’ineluttabilità del destino, il pessimismo dei suoi antenati celti, il rifiuto del modernismo. Le migliori opere poetiche di Howard, in forma di sonetto o ballata, colpiscono per il colore e il vigore delle immagini, spesso cruente e in grado di sconvolgere il lettore per la loro sanguigna visionarietà
(Michele Tetro). Questo giovane tanto vigoroso quanto ombroso, bodybuilder e poeta, era famoso in tutta la città perché tirava di boxe nell’aria per allenamento; collezionava coltelli e spade; usciva con la pistola perché dovunque era “pieno dei suoi nemici” personali: un uomo senza pace in un mondo carico di tensioni, ma che conosceva il trionfo e la gloria delle fantasie eroiche.
Chi erano le ombre contro cui lottava, a chi si riferiva quando parlava dei suoi nemici? Nella biografia Dark Valley Destiny, scritta negli anni Ottanta da L. Sprague De Camp e da sua moglie Catherine Crook, per rispondere a questa domanda gli autori hanno interrogato la psichiatra Jane Whittington Griffin. Secondo la sua teoria i nemici di Robert non sono immaginari, ma personificazioni delle leggi a cui nessuno può sfuggire, a cominciare dallo stesso principio di causalità: “identiche cause producono identici effetti; ogni cosa ha il suo prezzo; il tempo perduto non si recupera mai e non esistono maghi benigni che possano salvarci dalle conseguenze dei nostri errori e avventatezze”. Ma nel fantastico, regno dell’improbabile e anche dell’impossibile, le catene di un universo indifferente e ostile si possono spezzare. Ecco il senso della missione di Conan, il suo scopo utimo: realizzare un ideale di ribellione, di vendetta contro la necessità. Con le conseguenze che questo comporta, naturalmente, e che richiedono una lotta continua insieme a un delirio continuo, come ben sappiamo dall’esempio di don Chisciotte.
Da un punto di vista narrativo, questo procedimento non è una semplice scappatoia; quando si ricrea il mondo e si mettono i presupposti per raccontare un tempo primordiale che corrisponde “ai fondamenti primordiali dell’animo umano”, non ci si balocca con un passatempo: si coltiva un’ossessione che si trasforma col tempo in necessità radicale, di arte per Robert E. Howard e di avventura per il suo cimmero.
Pur non essendo l’assoluto buon selvaggio come Tarzan, nella sua mancata integrazione Conan esprime motivazioni complesse; in lui riecheggia il conflitto ben noto tra natura e cultura, tra il fascino delle immagini materne (incarnate nella natura) e quelle paterne che, prolungate nelle istituzioni, costituiscono la base della civiltà. In Howard il conflitto è particolarmente violento e la spada del barbaro è puntata dritto al cuore del problema, destinata com’è a scontrarsi con la bacchetta magica del vecchio stregone (l’esponente della “cultura”). All’interno di ogni civiltà esiste ovviamente un lato oscuro, per cui il sapere viene adoperato a fini di avidità e distruzione: nelle fantasie epiche il sapiente malvagio è il mago nero, affetto da tutti i mali dell’ambizione e della volontà di sopraffazione. Nel finale del romanzo L’ora del drago lo stregone Xaltotun viene descritto con parole che sembrano prefigurare – siamo nel 1935 – la capacità hitleriana di incarnare “un nemico del genere umano”. Per vincere la bacchetta magica di un tale demonio occorrono la risolutezza di Conan e la sua spada. Ma il senso di un’arma si riassume con forza anche in un’altra metafora, il profondo detto del Bushido Io non ho spada: il silenzio del mio spirito è la mia spada
. Questo insegnamento non entra direttamente nelle avventure howardiane eppure incombe, alludendo a una capacità di resistenza e a un senso di giustizia che rimandano a una grande forza interiore. Conan è un paladino esemplare non solo quando uccide il nemico, ma quando gli resiste stoicamente, contro tutte le avversità. Nel momento risolutivo, il male assoluto verrà distrutto dall’arma assoluta delle leggende, la tenacia del campione, e noi sentiamo di essere al cuore di un’ultima canzone di gesta.
Dunque, nella loro brutale sincerità le fantasie iboriane non inseguono il semplice obbiettivo di evadere dal quotidiano, ma quello di far scendere sulla terra i sogni più bizzarri, incarnandoli in una realtà stravolta e impossibile, a meno di interpretarla come dimensione del mito; un regno di speranze inaudite che lottano per dare senso a un mondo violato. Ne esce una miscela alquanto eccentrica anche all’interno del fantastico, un tipo di narrativa in cui lo scenario non è mai deludente anche quando può sembrare scontato. Maghi e negromanti, mostri e principesse, sortilegi e città perdute diventano attori come i personaggi in carne ed ossa, espressioni di una ricerca. E se non ricerca interiore – come ha sottolineato Riccardo Valla – ricerca di qualcosa di concreto che tuttavia ha valore di emblema, di simbolo, come nei sogni in cui gli oggetti più disparati ci ricordano le cose importanti. Le invenzioni di Howard restano esemplari perché ci danno ancora, insieme al piacere della lettura, lo spunto per una concezione rigorosa e inevitabile del fantastico come scelta estrema, conflitto tra ideali vissuti personalmente e che sconfinano in una mitologia unitaria e poetica. In un universo dai colori cupi e magici, il succedersi di trionfi e disavventure e la presenza costante della morte ci riportano fuori dall’escapismo dozzinale, verso il gusto dell’immaginazione pura.
Questo desiderio onirico di riscatto modificherà ben presto la linea di confine tra fantasia e realtà, non solo nell’opera howardiana ma nel più ampio panorama/immaginario della narrativa americana, dando al lettore l’impressione di trovarsi in un esperimento di magia. Un nuovo, promettente inferno narrativo.
NOTA ALLA PRESENTE EDIZIONE
Per la prima volta in Italia, tutti i racconti, i romanzi brevi e l’unico romanzo dedicato da Robert E. Howard al suo personaggio più famoso, sono presentati in un volume unico. L’ordine che abbiamo seguito è quello cronologico di pubblicazione, che in molti casi corrisponde anche all’effettivo ordine di composizione. Fanno eccezione i racconti “Dei del nord” (alias “La figlia del gigante dei ghiacci”, apparso durante la vita dell’autore soltanto sul periodico amatoriale “The Fantasy Fan”, 1934) e i postumi “Il dio nel sarcofago”, “Lo straniero nero” (noto anche come “Il tesoro di Tranicos”) e “La valle delle donne perdute”, che in origine erano stati rifiutati dalla rivista “Weird Tales” e che abbiamo raggruppato in un’apposita sezione. Il volume è chiuso dal romanzo L’ora del drago: uscito a puntate tra il finire del 1935 e la primavera 1936, predata di poco “Chiodi rossi” (1936) ma abbiamo deciso di sistemarlo in fondo alla raccolta per dargli il risalto che merita.
Seguendo il percorso cronologico, il lettore non si immergerà nelle imprese di Conan secondo un filo ordinato artificialmente dagli editori, ma incontrerà il cimmero esattamente come lo ha immaginato Howard e come lo hanno conosciuto i lettori di “Weird Tales” tra il 1932 e il 1936: prima usurpatore e re, poi avventuriero nelle fasi precedenti della sua carriera, mentre solo alla fine il cerchio si chiuderà con L’ora del drago. Dopo ogni racconto abbiamo fornito il titolo originale e la data di pubblicazione: quando le vicissitudini editoriali hanno condotto, nel tempo, a manipolazioni dei testi o a loro adattamenti – qui eliminati per offrire al lettore solo le versioni howardiane – ne abbiamo dato conto brevemente ma in modo completo. De “Lo straniero nero”, questa è la prima edizione italiana conforme al testo originale di Robert E. Howard. Tutte le traduzioni sono state riviste e aggiornate rispetto alle edizioni precedenti.
Per i lettori che volessero seguire la carriera del cimmero secondo la cronologia interna delle sue imprese, l’ordine stabilito da L. Sprague De Camp è il seguente:
La Torre dell’elefante
Il dio nel sarcofago
Nella casa di notte
Dei del nord
La regina della Costa Nera
La valle delle donne perdute
Colosso nero
Ombre di ferro al chiaro di luna
Nascerà una strega
Cannibali di Zamboula
Il demone di metallo
I maestri del Cerchio Nero
L’ombra ghermisce
Il pozzo dei neri
Chiodi rossi
I gioielli di Gwalhur
Oltre il Fiume Nero
Lo straniero nero
La spada della fenice
La rocca scarlatta
L’ora del drago
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