Tanto tempo fa, un uomo discese dal cielo e uccise mia moglie. Adesso, cammino al suo fianco, in cima a una montagna che si libra sul nostro pianeta. Nevica. Merlature di pietra bianca e vetro scintillante spiccano sulla roccia.
Intorno a noi, vortica un caos avido. Tutti i grandi Oro di Marte sono discesi all’Istituto per rivendicare i migliori, gli elementi più brillanti del nostro anno. Le loro navi brulicano nel cielo mattutino, fendono un mondo di neve e castelli fumanti, verso l’Olimpo, che ho conquistato solo poche ore prima.
«Rivolgi un ultimo sguardo» mi dice mentre ci avviciniamo al suo shuttle. «Tutto ciò che è stato, era solo un bisbiglio del nostro mondo. Quando lasci questa montagna, tutti i legami si spezzano, tutti i giuramenti non sono altro che cenere. Non sei pronto. Nessuno lo è mai.»
In mezzo alla folla, noto Cassio con il padre e i fratelli, diretti allo shuttle. Ci fissano con occhi di fuoco, che spiccano sul bianco, e ricordo l’ultimo battito del cuore di suo fratello. Una mano violenta, dalle dita ossute, mi reclama, stringendomi possessivamente la spalla.
Augustus fissa i suoi nemici.
«Bellona non perdona, né dimentica. Sono numerosi. Ma non possono farti del male.» Mi scruta con occhi freddi. Sono la sua ultima conquista. «Perché tu sei mio, Darrow, e io proteggo ciò che mi appartiene.»
Anche io.
Per settecento anni, il mio popolo è stato ridotto in schiavitù, senza voce, senza speranza. Adesso io sono la loro spada. E anche io non perdono. Anche io non dimentico. Così, mi conduca pure allo shuttle. Mi creda pure suo. Mi accolga nella sua casa, e possa io distruggerla.
Ma poi sua figlia mi prende per mano, e sento le menzogne gravarmi sulle spalle. Si dice che un regno non può sopravvivere quando è diviso in se stesso. Ma nessuno parla mai di quel che succede al cuore.
Parte I
IN GINOCCHIO
Hic sunt leones. “Qui ci sono i leoni.”
NERONE AU AUGUSTUS
1
I Signori della Guerra
Il mio silenzio rimbomba. Sono sul ponte della mia astronave, il braccio rotto e fasciato col gel-cast, le bruciature ioniche mi fanno ancora male sul collo. Sono stramaledettamente stanco. Al braccio destro, quello non ferito, porto il razor attorcigliato, come un freddo serpente metallico. Davanti a me si apre lo spazio, vasto e terribile. Piccoli frammenti di luce puntellano il buio, mentre ombre primordiali si muovono e nascondono le stelle ai margini della visuale. Asteroidi. Fluttuano piano intorno alla mia ammiraglia, la Quietus, mentre scruto le tenebre, in cerca della mia preda.
«Vinci» ha detto il mio padrone. «Vinci come non è possibile ai miei figli, e arrecherai onore al nome di Augustus. Vinci all’Accademia e guadagnati una flotta.» Gli piacciono le ripetizioni drammatiche. Si addicono alla maggior parte degli statisti. Vuole che vinca per lui; invece lo farei per la ragazza Rossa che aveva un sogno molto più grande di lei. Vincerei perché lui muoia, e il messaggio di quella ragazza possa ardere nei secoli. Un imperativo da poco.
Ho vent’anni. Alto e con le spalle larghe. La mia uniforme, nera, è raggrinzita. Ho i capelli lunghi e gli occhi dorati, iniettati di sangue. Una volta Mustang ha detto che ho un viso affilato, con le guance e il naso che paiono scolpiti in un marmo corrucciato. Personalmente evito gli specchi. Meglio dimenticare la maschera che indosso, decorata dalla cicatrice ad angolo degli Oro che regnano sui pianeti, da Mercurio a Plutone. Sono uno Sfregiato Senza Pari, i rappresentanti più splendidi e crudeli dell’intera razza umana. Eppure mi manca la più gentile della loro stirpe. La ragazza che mi ha chiesto di rimanere mentre dicevo addio a lei e a Marte, sul suo terrazzo, quasi un anno fa. Mustang. Come dono d’addio le ho dato un anello d’oro con lo stemma di un cavallo, lei invece mi ha dato un razor. Appropriato.
Il sapore delle sue lacrime sbiadisce nel ricordo. Da quando ho lasciato Marte, non ho sue notizie. E quel che è peggio, non ne ho avute dai Figli di Ares da quando ho vinto all’Istituto di Marte, più di due anni fa. Danzatore aveva detto che mi avrebbero contattato quando mi fossi diplomato, ma sono stato gettato alla deriva in un mare di facce Oro.
Tutto questo è così diverso dal futuro che immaginavo da ragazzo. Così diverso dal futuro che volevo realizzare per il mio popolo quando lasciai che i Figli mi scolpissero. Pensavo che avrei cambiato il destino di interi pianeti. Quale ragazzino sciocco non lo pensa? Invece, sono stato inghiottito dalla macchina di questo impero sconfinato, mentre avanza tuonando, inesorabile.
All’Istituto, ci addestrano a sopravvivere e conquistare. Qui all’Accademia ci insegnano la guerra. Saggiano la nostra destrezza. Comando una flotta di navi da battaglia contro altri Oro. Combattiamo con munizioni finte e ci lanciamo in incursioni e arrembaggi alla maniera dei combattimenti astrali degli Oro. Non c’è motivo per distruggere una nave che costa grossomodo il prodotto interno d’una dozzina di città, quando puoi inviare una Sanguisuga, una navicella d’assalto piena di Ossidiana, Oro e Grigi, a conquistare i suoi organi vitali e farla tua.
Insieme alle lezioni di combattimento stellare, gli istruttori ci martellano con le massime della loro razza. Solo i forti sopravvivono. Solo i più gloriosi governano. Poi se ne vanno e ci lasciano a cavarcela da soli: a balzare d’asteroide in asteroide, in cerca di viveri, basi, braccando gli altri studenti fino a che non rimangono due flotte, e nient’altro.
Sto ancora giocando una partita. È solo la più micidiale, finora.
«È una trappola» dice Roque al mio fianco. Ha i capelli lunghi, come me, il viso delicato come una donna e sereno come un filosofo. Uccidere nello spazio è diverso dall’uccidere a terra. In questo Roque è un vero prodigio. La cosa ha una sua poesia, sostiene. Una poesia nel movimento delle sfere celesti e nelle navi che le solcano. Il suo viso calza a pennello con gli equipaggi Blu di questi vascelli, uomini e donne eterei che si muovono come spiriti bizzosi nei saloni metallici, tutti logica e ordini rigorosi.
«Ma non una trappola elegante come Karnus potrebbe pensare» continua. «Sa che non vediamo l’ora di chiudere la partita, perciò ci attenderà dall’altra parte. Ci obbligherà a spingerci in un corridoio angusto e lancerà i suoi missili. Un trucco collaudato dall’alba dei tempi.»
Roque indica con cura lo spazio tra due grandi asteroidi, una strettoia che dovremmo attraversare se vogliamo continuare a inseguire la nave danneggiata di Karnus.
«Tutto è una maledetta trappola.» Tactus au Rath, slanciato e languido, sbadiglia. Sporge la sua figura pericolosa contro la vetrata e si fa un tiro dall’anello che porta all’indice. Getta la cartuccia vuota sul pavimento. «Karnus sa di aver perso. Ci sta solo torturando. Un piccolo inseguimento divertente per non farci dormire. Stronzo egoista.»
«Sei proprio un marmocchio Pixie, non fai che guaire e frignare.» Victra au Julii sogghigna dalla sua postazione davanti alla vetrata. I capelli frastagliati le cadono appena oltre gli orecchini di giada. Impetuosa e crudele, ma non troppo, disdegna i belletti e preferisce le cicatrici che ha guadagnato nei suoi ventisette anni. Sono molte.
Ha occhi gravi, profondamente incassati. Una grande bocca sensuale, le labbra fatte per mormorare insulti facendo le fusa come una gatta. Assomiglia più alla sua celebre madre che alla sorellastra minore, Antonia; ma nell’arte di mutilare le supera di gran lunga entrambe.
«Le trappole non significano nulla» dichiara lei. «La sua flotta è stata spazzata via. Ha una sola nave. Noi ne abbiamo sette. Che ne dite di fracassargli la bocca?»
«Darrow ne ha sette» la corregge Roque.
«Come dici, prego?» chiede lei, infastidita dalla correzione.
«Quelle che restano sono sette navi di Darrow. Hai detto che sono nostre. Non sono nostre. Il Primus è lui.»
«Il poeta pedante colpisce ancora. Il punto è lo stesso, signore.»
«Essere avventati invece che prudenti?» domanda Roque.
«Siamo sette contro uno. Sarebbe imbarazzante lasciare che la faccenda si trascini. Perciò, schiacciamo quel teppistello Bellona sotto il nostro considerevole stivale come uno scarafaggio, torniamo alla base, riceviamo la giusta ricompensa dal vecchio Augustus, e andiamo a giocare.» Torce il calcagno per enfatizzare il concetto.
«Esatto, esatto.» Tactus concorda. «Il mio regno per un grammo di Polvere-Demone.»
«Quella era la tua quinta sniffata, oggi, Tactus?» chiede Roque.
«Sì! Grazie per avermelo fatto notare, mammina carissima! Ma sto cominciando a stancarmi di questa droga militare da quattro soldi. Voglio i Club-Perla e fiumi di droga come si deve.»
«Ti brucerai il cervello.»
Tactus si dà una pacca sulla coscia. «Vivi veloce. Muori giovane. Quando sarai una noiosa uvetta rinsecchita, io sarò il glorioso ricordo di tempi più raffinati e giorni decadenti.»
Roque scuote il capo. «Un giorno, mio eccentrico amico, troverai qualcuno da amare che ti farà ridere dell’idiota che eri. Avrai dei figli. Una tenuta. E, in un modo o nell’altro, imparerai che ci sono cose più importanti di droghe e Rosa.»
«Per Giove.» Tactus lo fissa orripilato. «Davvero deprimente.» Rivolgo un’occhiata al monitor tattico, lasciandoli a punzecchiarsi.
La preda che bracchiamo è Karnus au Bellona, fratello maggiore del mio amico d’un tempo, Cassio, e del ragazzo che ho ucciso al Passaggio, Julian au Bellona.
Di quella famiglia tutta riccioli, Cassio è il figlio prediletto. Julian era il più gentile. E Karnus? Il mio braccio rotto parla da sé: Karnus è il mostro liberato dalle loro segrete per uccidere.
Dai tempi dell’Istituto, la mia fama è cresciuta. Così, quando al circuito dei pettegolezzi Viola è arrivata la notizia che l’ArciGovernatore stava per inviarmi ad approfondire finalmente i miei studi, la madre di Cassio ha mandato anche Karnus e alcuni cugini selezionati a “studiare”. Quella famiglia vuole il mio cuore su un piatto. Letteralmente. A frenarli è solo lo stemma di Augustus. Attaccare me significa attaccare lui.
Ma, alla fine, non me ne frega niente della loro vendetta o della faida sanguinaria del mio padrone con la loro Casata. Io voglio la flotta per i Figli di Ares. Che macello potrei combinare. Ho studiato le linee di rifornimento, le stazioni di rilevamento, i quartieri generali, i centri dati: tutti i punti sensibili che farebbero vacillare la Società.
«Darrow…» Roque si fa più vicino. «Guardati dalla superbia.
Ricordati di Pax. La superbia uccide.»
«Voglio che sia una trappola» gli dico. «Lasciamo che Karnus si volti ad affrontarci.»
Lui inclina la testa. «Anche tu gli hai preparato una trappola.»
«Cosa te lo fa pensare?»
«Avresti potuto dircelo. Avrei potuto…»
«Karnus cade oggi, fratello. La verità è semplicemente questa.»
«Ma certo. Desidero solo aiutare. Lo sai.»«Lo so.» Reprimo uno sbadiglio e lascio che lo sguardo percorra le fosse-tech posizionate ai lati del ponte di comando dietro e sotto di me. Blu di diverse sfumature vi lavorano alacremente, gestendo i sistemi che governano la mia nave. Parlano più lentamente di qualsiasi altro Colore eccetto gli Ossidiana; preferiscono la comunicazione digitale. Sono più grandi di me, tutti diplomati alla Scuola della Mezzanotte. Alle loro spalle, in fondo al ponte di lancio, soldati Grigi e diversi Ossidiana stanno di sentinella. Do a Roque una pacca sulla spalla.
«È il momento.»
«Marinai» tuono ai Blu nella fossa. «Spremetevi le meningi. Questo è l’ultimo chiodo conficcato nella bara dei Bellona. Mandiamo all’aria questo bastardo e vi prometto il dono più grande che posso elargire: una settimana di sonno come si deve. Splendido, no?»
Alcuni Grigi ridono in fondo al pontile. I Blu si limitano a battere le nocche sulle strumentazioni. Darei metà del mio cospicuo conto in banca, con tante grazie all’ArciGovernatore, per vedere uno di quei cretini pallidi fare un sorriso.
«Abbiamo indugiato abbastanza» proclamo. «Cannoni in posizione. Roque, assembra i Distruttori. Victra, occupati del bersaglio. Tactus, alla difesa. La chiudiamo adesso.» Rivolgo uno sguardo al mio smilzo Timoniere Blu. Se ne sta al centro della fossa sotto la mia piattaforma di comando, in mezzo ad altri cinquanta. Le spire dei digiTat, che marcano i crani calvi e le mani da ragno dei Blu, si illuminano di sottili sfumature azzurre e argentate; si sincronizzano con i computer della nave. I loro sguardi si fanno vacui mentre i nervi ottici si spostano sul mondo digitale. Ci rivolgono la parola solo per cortesia. «Timoniere, motori al sessanta per cento.»
«Sì, dominus.» Guarda il monitor tattico, un holo sferico che gli fluttua sulla testa; la sua voce ricorda quella di una macchina.
«Attenzione, la concentrazione di metallo negli asteroidi comporta difficoltà nell’effettuare un’analisi a spettro. Procediamo un po’ alla cieca. Dall’altro lato degli asteroidi potrebbe nascondersi una flotta.»
«Lui non ha una flotta. Entriamo nella breccia» dico. I motori della nave rombano. Annuisco a Roque e dico: «Hic sunt leones». Le parole del nostro padrone, Nerone au Augustus, ArciGovernatore di Marte, tredicesimo del suo nome. I miei signori della guerra fanno eco.
Qui ci sono i leoni.
© 2015 Pierce Brown
Traduzione di Edoardo Rialti
Su concessione di Mondadori Libri S.p.A.
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