C’è un passaggio del romanzo La stanza profonda di Vanni Santoni che forse, più di tanti altri, può aiutare a capire di cosa parla questo libro. Si tratta del momento in cui la voce narrante rievoca quali foto esistevano del periodo in cui giocava di ruolo con i suoi amici, e si rende conto del fatto che la fotografia di un gruppo di adolescenti seduti attorno a un tavolo, con schede e matite, manuali di Dungeons&Dragons, dadi poliedrici e patatine, be’, in realtà non racconta nulla, ma proprio nulla, di quanto sta accadendo in quel momento nello shared imagined space di una storia raccontata, condivisa e sospesa fra più persone. E questo perché si tratta di un vero e proprio “cloud mentale” cui si può accedere solo prendendo parte al gioco, e che visto dall’esterno non è esperibile.
La stanza profonda è appunto il tentativo – riuscitissimo – di dare conto del fenomeno dei giochi di ruolo “dal di dentro”, attraverso i vissuti, le esperienze, le amicizie, i sogni e le speranze di un gruppo di adolescenti che crescono (non solo in Punti esperienza dei propri personaggi) attorno al tavolo.
Un romanzo, quindi, ma con più di un tratto di saggistica: perché avviluppate alla narrazione ci sono anche frequenti intromissioni di storia del gioco, antropologia, psicologia. Il titolo stesso del libro dà già un’interpretazione multistrato del fenomeno: la “stanza profonda” è sì la cantina in cui i giocatori si riunivano per dare vita alle avventure di paladini, chierici ed elfi; ma è anche il dungeon, luogo classico e archetipico di esplorazione dell’ignoto, che come tutti i luoghi ctonî porta con sé suggestioni psicanalitiche. Chi si immerge nella “stanza profonda” si immerge in fondo anche in se stesso.
L’autore, è evidente, conosce bene la materia di cui parla. Non è una sorpresa: già al termine del suo primo romanzo fantasy, Terra ignota, c’era un riferimento agli amici della “scatola rossa”. Criptico per chi non sa di cosa si sta parlando, palese per chi abbia mai preso in mano la scatola anni ‘80 del set base di Dungeons&Dragons. C’è da dire che Santoni deve aver introiettato bene la lezione di narrativa condivisa impartitagli dai giochi di ruolo: non solo è oggi un autore a tutto tondo, che ha scritto anche cose diverse dal fantasy, ma è anche coordinatore di un progetto di scrittura collettiva regolamentata che ha prodotto il romanzo storico In territorio nemico.
La stanza profonda, infine, forma un ideale dittico con un altro libro recente dello stesso autore, Muro di casse. Anche in questo caso si tratta di un “oggetto narrativo” che condivide elementi sia del saggio sia del romanzo e che affronta dal di dentro una controcultura comprensibile solo a chi vi abbia partecipato: in questo si parla dei raver. Mondi diversissimi, i giochi di ruolo e i rave party, ma entrambi costituiti da persone spesso ai margini della cultura ufficiale di allora, e che oggi possiamo leggere come vere e proprie avanguardie.
L’aspetto interessante di questi “saggi partecipati” è che, anche se non ci si è mai affacciati a quei mondi e a quelle culture, ci si riesce perlomeno a fare un’idea abbastanza chiara di cosa significava viverci dentro. Per tutti gli altri – nel nostro caso per chi abbia mai lanciato un dado a venti facce per vedere se il suo ranger riusciva a colpire un orchetto – la lettura de La stanza profonda risulta se possibile ancora più interessante. Il romanzo riesce infatti a creare un forte legame empatico col lettore e, al di là dell’indubbio effetto nostalgia di quando raccolta un’esperienza condivisa, chiama per nome sensazioni e vissuti che forse la comunità dei giocatori di ruolo non era mai riuscita, finora, a descrivere con lo stesso nitore.
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